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sabato 30 maggio 2020

Da VINO AL VINO DI MARIO SOLDATI.

... In altre parole, il vino non è una entità omogenea né omogeneizzabile. Il vino è qualcosa, sempre, di vivo, di locale, di individuale. Come ebbe più volte a dichiarare M. Calvet di Bordeaux, che, in tutto il mondo vinicolo, è il più grande commerçant-éléveur anche industrializzato, «il vino in sé non può e non potrà mai essere un prodotto industriale. Vino industriale è una contraddizione in termini. Il vino è un prodotto, sempre e soltanto, artigianale». E va bene che M. Calvet predica bene e razzola male. Ma lui è il primo industriale del vino in tutto il mondo anche perché sente la necessità assoluta di mentire, e di negarsi tale qualifica.
Industriale, tuttavia, potrebbe essere lo smercio del vino: mentre il vino dovrebbe restare rigorosamente artigianale. Quali sono, infatti, i consumatori di vino che, oggi, avrebbero tempo e voglia, e che potrebbero permettersi il lusso, di battere le piccole città di provincia, i villaggi, le frazioni, le case coloniche e la campagna, come ho fatto io lo scorso autunno, alla ricerca di vini genuini? L’optimum, per i consumatori di vino, oggi, sarebbe dunque un’organizzazione a carattere (questa sì!) industriale, che attraverso una ricerca simile alla mia, scopra vini genuini, autentici, di quantità forzatamente molto limitata, e provveda ad assicurarsela, e la ridistribuisca ai consumatori garantendo loro assoluta autenticità, genuinità e perfetta conservazione entro certi limiti di tempo, limiti dichiarati vino per vino, e a patto che si adempia, vino per vino, a dichiarati accorgimenti.
I vini che rincorro attraverso l’Italia sono, dunque, eccezioni alla melanconica regola: vini tra i pochi, tra gli ultimi, che non siano soltanto «nomi» e niente di più.
In viaggio. L’Etna in eruzione. Catania. Primi assaggi.
Il ricordo del serpente di fuoco. Perché i bianchi siciliani sono migliori dei rossi. Paride enologico, eleggo un bianco di Milo.
A Catania, prima tappa, arriviamo di notte, in aereo. Sono con mio figlio, che farà fotografie; e con l’amico Ignazio Bòccoli, che mi assisterà come esperto dell’Istituto Enologico Italiano. L’Etna è in eruzione. Vediamo dai finestrini, sul fondo completamente nero della montagna, scendere srotolandosi un enorme serpente luminoso, un fiume spesso di lava rovente e bollente, vermiglia, gonfia, globosa nel suo procedere, e con volute e strie, più luminose ancora ma di colore arancione o addirittura giallo. È uno spettacolo affascinante. Lo seguiamo spostandoci da un finestrino all’altro, col progredire dell’aereo, e disturbando i passeggeri. Alcuni reggono ancora sulle ginocchia il vassoietto dell’abominevole pranzo. È ovvio: consiglio di evitare sempre, finché possibile, i pasti in aereo. E non mi dite che nei viaggi di un’ora o due non è possibile! Ma la nostra rinuncia, questa volta, ha anche un secondo scopo: riservare il nostro appetito alla degustazione, immediata e notturna, in qualche ristorante di Catania, dei vini prodotti nei vigneti e nei poderi che cominceremo a visitare domattina proprio «sulle falde dell’Etna», e proprio sotto, neanche a farlo apposta, la colata di lava adesso in eruzione!
Nota bene, una volta per tutte. A parte i vini da aperitivo come lo Jeréz, gli sherry, i chinati, o anche l’Albanello, che devono essere provati a digiuno; e a parte i vini da dessert, come il Porto e come i nostri passiti, che devono essere provati dopo pranzo o tutt’al più col dolce: tutti gli altri vini, per poterne dare un giudizio sicuro, bisogna rigorosamente assaggiarli a pasto, o almeno insieme a un poco di cibo. Perché, a stomaco vuoto, quasi ogni vino sembra gradevole: un inganno in cui, purtroppo, si continua a cadere anche quando se ne ha tutta l’esperienza.
Un quarto d’ora dopo, troviamo in via XX Settembre, non lontano dall’albergo, una pizzeria dove ceniamo benissimo, facciamo stappare e assaggiamo in tranquillità un gran numero di diversi vini dell’Etna. Presto ci accorgiamo che i bianchi sono, nettamente, superiori ai rossi. C’è forse un motivo? Ecco qua.
Caratteristica di qualunque vino siciliano è uno speciale sapore violento, acre, catramoso, che qualche volta è sgradevole: che a qualche palato (diciamolo francamente, perché no?) è sempre sgradevole: ma che non è necessariamente sgradevole e che non è mai sgradevole quando il vino sia prodotto genuinamente, senza additivi, senza eccessive dosi di solfitanti, e quando sia, eventualmente, chiarificato mediante refrigerazione, ma a stretta regola d’arte, con un calcolo esatto, e fortunato, dei tempi e delle temperature. Si gusta, allora, un vino che non assomiglia a nessun altro, se non, forse, al resinato di Grecia: ma con questo vantaggio, con questa incommensurabile superiorità, che il carattere del resinato è dovuto appunto alla resina di pino, cioè a un additivo, e lo si sente, mentre il carattere del vino siciliano è dovuto esclusivamente alla naturale fermentazione delle uve, e anche questo lo si sente: un carattere che sembra coincidere con la presenza indistruttibile (nonostante il progressivo filtraggio fisiologico, nonostante il passaggio sempre più costretto, capillare, microscopico, osmotico, attraverso le radici i rami il graspo gli acini fino al succo) delle qualità caloriche, carboniche, vulcaniche della terra dove crescono le viti: sembra coincidere con una traccia misteriosa di quello stesso fuoco, che ci è apparso dai finestrini dell’aereo nel luminoso serpente eruttato dall’Etna, e che, certamente, deve essere sparso un po’ dappertutto, a non troppa distanza dalla superficie, sotto la terra e sotto le rocce della grande isola.
Salvo qualche eccezione, questo «ricordo del serpente di fuoco», questo gusto del vino di Sicilia, è più accettabile nei bianchi che non nei rossi. Forse, alla regola, esistono alcune eccezioni. Forse. Io, personalmente, ne ho constatato due sole, che poi dirò. Ma, e la causa del fenomeno? Semplice: i rossi di Sicilia, e tanto più i rossi dell’Etna, sono meno accettabili dei loro corrispondenti bianchi appunto perché quel gusto di fuoco sembra che ci sia «passato troppo dentro»: i bianchi, invece, lo hanno filtrato, lo hanno ridotto a un’ombra, a un sospetto, a una leggerissima vena acre che non può non piacere. E non è un’impressione letteraria. Esiste una spiegazione fisica. Sull’Etna, come del resto quasi dovunque altrove, alla vinificazione dei rossi partecipano anche le bucce degli acini: alla vinificazione dei bianchi partecipa il solo succo, mentre le bucce vengono accuratamente eliminate.
Su tutti i bianchi dell’Etna provati quella prima notte a Catania, uno risultò vittorioso. Non farò, ovviamente, menzione degli sconfitti. Si tratta di un «gusto» mio personale e momentaneo. Forse, altre persone avrebbero dato un parere diverso: forse, avrei dato un parere diverso io stesso, assaggiando gli stessi vini in un altro momento, dopo altri cibi, e trovandomi di un altro umore. Sui vini, un giudizio perentorio e oggettivo è impossibile. Vittorioso per me, quella notte, fu l’Etna Bianco prodotto dal Barone Nicolosi di Villagrande nei suoi vigneti e nelle sue cantine di Milo, poco più su di Zafferana Etnea, a seicento e anche a settecento metri sul livello del mare.
È Sicilia, e mi pare Piemonte. Spiegazione di un miraggio. Scopro un’altra ragione alla mia simpatia per Ercole Patti e all’ammirazione di Patti per Gozzano. Il matrimonio tra vigna e albero genealogico: come scoprire vini consultando l’Almanacco di Gotha. Decadenza dei ceti aristocratici e suoi rapporti con l’enologia.
Incanto del mattino di primo autunno, mentre nell’aria tepida e limpida, tra i muretti neri di lava, tra il profumo degli agrumeti e il loro verde compatto, cupo, brillante, risalivamo da Catania le pieghe più basse di quell’immenso mantello miracolosamente fertile che l’Etna ha steso tutto intorno a sé.
Ecco Viagrande, Pedara, Fleri, Malpasso, Pisano… sono proprio i terreni che il Garoglio, il Tommaseo dell’enologia, indica come caratterizzanti ed esclusivi per la produzione del vino, bianco e rosso, dell’Etna! Altro, però, leggere alcuni nomi su un manuale, magari confrontando sulla carta geografica le cifre altimetriche che corrispondono a quei nomi: e altro è salire gradatamente, lentamente, attraverso i paesini puliti e fioriti, in quell’aria che a poco a poco si fa sempre più leggera e fragrante. Lo confesso ora: ieri sera la squisitezza, la raffinatezza del bianco di Villagrande mi aveva stupito: a momenti, quasi vi sospettavo un artificio. E adesso mi spiego tutto. È vino di Sicilia, sì, ma è anche vino di montagna: e quale montagna! Come il Gattinara sembra che attinga la sua forza più segreta al vento che passa sui ghiacciai del Rosa pochi minuti prima di soffiare tra le vigne; come il Rossese cresce tra il mistral e lo scirocco, tra i riflessi, egualmente vicini, del Mar Ligure e del Clapier: così l’Etna Bianco raccoglie e fonde, nel suo pallore e nel suo aroma, nella sua freschezza e nella sua vena nascosta di affumicato, le nevi perenni della vetta e il fuoco del vulcano. Quassù, insomma, tutta quella secchezza e quella freschezza che facevano pensare addirittura a un vino nordico, e che potevano anche, a momenti, insospettire, sembrare un trucco di lavorazione, non stupiscono più.
Ero già stato, varie volte, a Catania: ma è la prima volta che vengo sull’Etna. La straordinaria simpatia e quasi la fratellanza che ho sempre avvertito nei romanzi e nelle novelle catanesi dell’amico Ercole Patti, e che credevo da attribuirsi alla nostra comune età e al concordare delle nostre preferenze letterarie, ora intuisco che devono essere spiegate anche con questa straordinaria, sorprendente affinità, nonostante la diversa latitudine, dei paesini dove le nostre due famiglie andavano in villeggiatura verso il principio del secolo, quando lui e io eravamo bambini. E non è solo il clima. Mi guardo intorno: guardo queste ringhierine di ferro, questi balconcini rococò tutti fioriti, guardo queste vecchie ville dagli intonaci scrostati: questi paesini semideserti, settecenteschi e ottocenteschi: quest’atmosfera di incanto e di abbandono. Respiro quest’aria fine, frizzante, ma insieme delicata. E capisco di colpo che Gozzano, il Gozzano del Canavese e della Signorina Felicita, è tanto amato da Patti (come lo era da Brancati) prima che per ragioni letterarie, proprio per ragioni umane: per il riconoscimento viscerale di una somiglianza geografica e sociale. All’equazione: paesini dell’Etna–paesini del Canavese, corrisponde infatti un’altra equazione: famiglie della buona borghesia torinese all’inizio del Novecento–famiglie della buona borghesia catanese alla stessa epoca. Le une e le altre famiglie prosperavano allora nell’alone di un’aristocrazia antichissima e strapotente che cominciava a decadere, e che era amata da quelle nostre famiglie borghesi (di Gozzano, di Brancati, di Patti, di me stesso) con un misto, così patetico, di invidia e di ironia, di rispetto per la ricchezza ancora molto cospicua, e di critica divertita per l’ormai evidente sclerosi.
Ah, ma la sclerosi dei ceti sociali è un male sottilissimo: attacca chi meno la teme, e a volte abbandona chi, riconoscendosene attaccato, è corso sollecito ai ripari.
Tale è, neanche a farlo apposta, il comportamento di una parte (certo la migliore! almeno la più viva!) dell’aristocrazia italiana, lungo tutta la penisola. Non pochi dei migliori vini, che ho scoperto (scoperto almeno per me) in questo viaggio, sono prodotti e curati personalmente dagli aristocratici. Nella massiccia contrazione dei loro redditi, determinata dalla grande svolta economica della nazione, che in pochi decenni da agricola diventò industriale, rimase loro la terra. Molti di loro, quella terra, la amavano senza saperlo, e hanno capito che se volevano ancora conservare qualche potere nel nuovo mondo industriale, non dovevano perderla: dovevano, anzi, cercare di sfruttarla in pieno, con metodo moderno. Si trovavano, involontariamente e quasi improvvisamente, a essere favoriti dal progresso agricolo: la meccanizzazione, la pianificazione e la programmazione richiedono, appunto, le grandi estensioni del latifondo, e contrastano con le piccole proprietà borghesemente sminuzzate. Anche se la meccanizzazione si applica molto meno bene nei vigneti che non in ogni altra cultura, gli aristocratici hanno affrontato molto seriamente i problemi finanziari, tecnici e commerciali connessi con la viticoltura e con la vinificazione. E pare proprio che stiano vincendo la prova.
Così, rifacendo la valigia di libri e di carte, che mi trascinerò dietro fino alla fine del viaggio, accanto ai tre volumoni amaranto del Garoglio, ho dato spazio, quasi per contrappeso, ai sette volumetti blu savoia del Gotha italiano. Non basterà forse più, d’ora innanzi, distinguere la nobiltà dei vini dal nome dei poderi, dei vigneti, dei vitigni: sarà bene ricordare, quando occorra, i titoli, i predicati, le parentele, le ascendenze dei produttori: altri ceppi, altri rami, altre propaggini, altri rampolli: anche in linea femminile, s’intende!
Incontro con il Barone Carmelo Nicolosi da Villagrande. Un trampoliere in mezzo a una muta di cani usciti da un vaso greco. Mi preparo spiritualmente all’assaggio seguendo il barone nel «tour du propriétaire».
Ecco: nell’ombra del grande viale di castagni, nella pura aria già alpestre, in questa perfetta e struggente illusione di Piemonte, ci viene incontro adagio, sorridente, tranquillo, di un’eleganza antica e moderna insieme, il Barone Carmelo Nicolosi di Villagrande. È alto, magrissimo, scavate le guance brune: capelli grigio neri, lenti sfumate dall’alto in basso, digradanti dal bruno grigio all’incolore. Ha giacca e pantaloni di grisaglia leggera, grigio perla: maglietta rollcollar candida, all’ultima moda. Un uccello della specie dei trampolieri: certamente esotico, certamente raro, sebbene la sua razza non si riveli nello sfarzo dei colori ma nella loro sobrietà, e ancora più nella grazia della sagoma e delle nervature.
Gli saltella intorno una frotta di cani dal pelo fulvo, corto e lucido: muso a punta, orecchie aguzze, piccole e dritte: snelli, quasi levrieri meno alti e meno allungati. Sono i cernechi dell’Etna, tanto simili ai cani che si vedono dipinti nei vasi greci antichi. Hanno l’aria feroce e insieme casalinga. Li vedo estremamente affettuosi: ma di notte, dice il barone, riconoscono solo la gente di casa, e c’è da averne paura. Il barone, prima cosa e com’è giusto e tradizionale, ci conduce in un breve tour du propriétaire, così che possiamo renderci conto subito dell’estensione e dell’ubicazione dei vigneti. In fondo al viale dei castagni, un parco di sempreverdi che separa dalla strada. A destra, la villa dove ora, come ogni autunno, risiede il barone stesso con la sua famiglia, ospiti e amici. È una costruzione lunghissima, bassa, tutta al piano terra, e che fa un corpo solo con il rustico che la segue, e con il palmento che la precede. «Palmento», nella zona, è, letteralmente, una vasca di pietra, o di cemento, poco profonda ma alta da terra anche due metri, entro cui si pigiavano i grappoli coi piedi. Oggi che dovunque sono adottate le macchine pigiadiraspatrici, palmento significa, per sineddoche, qualunque edificio, o gruppo di edifici, che abbia rapporto con la produzione del vino: allo stesso modo che, in Val Padana, «cantina» significa non soltanto cantina, ma qualunque stabilimento di vinificazione, fermentazione, conservazione.
Del palmento, del rustico, della villa, i muri esterni sono quali a blocchi di lava nera, quali intonacati di grigio. I tetti sono bassi, depressi, ricoperti di minuti coppi giallo grigi. L’effetto generale è modesto, ottocentesco, e, proprio per questo, di un gusto squisito. Le case coloniche, almeno quelle che scorgiamo di quassù, sparse intorno nelle vallette e per i pendii dei vigneti, sono, per il colore e per il modulo architettonico, assolutamente identiche alla villa: solo più corte. E anche questa cautela, questa volontà di mimesi con le costruzioni più umili, questa civetteria di non volersene distinguere esteriormente, mi sembrano un segno di grande eleganza.
A sinistra, il viale dei castagni si affaccia, come un interminabile balcone, alla sottostante conca, tutta tappezzata di regolari vigne a filare: aperta proprio a sud, centrata col suo asse a mezzogiorno, verso il pieno sole, e verso il mare lontano, che si intravede nella bruma: chiusa invece a nord dalle gigantesche balze dell’Etna, che difendono dai venti. Per un vigneto, è l’orientazione ideale: non diversa, infatti, da quella del fondo di Lòzzolo, là dove crescono, o dovrebbero crescere, le vigne del migliore tra tutti i Gattinara: basta sostituire al mare la pianura padana e, di nuovo, al Rosa l’Etna.
Domandiamo al barone i vitigni da cui ricava i suoi vini.
«Per l’Etna Bianco» dice «ottanta per cento di carricante. I restanti venti per cento sono liberi, secondo il disciplinare. Molti adoperano il Catarratto, il Minnella, l’Insolia. Io, per mio conto, uso il Trebbiano: lo trovo più delicato. Per l’Etna Rosso, Nerello Mascalese. Le farò assaggiare una bottiglia di rosso del ’48. Mi dirà cosa ne pensa.»
Un tuffo nella Belle Époque. A Catania ancora di moda i duelli. I poliziotti appollaiati sugli alberi.
Rossori di una graziosa fanciulla. L’Etna Bianco e un quasi-Barbaresco prodotto in Sicilia.
Nelle «tume» catanesi un’altra eco di Piemonte.
A colazione: alla grande tavola ovale con il barone, sua moglie, i figli, la fidanzata del maggiore, e alcune giovani signorine catanesi ospiti: mi trovo deliziosamente circondato da un’atmosfera Belle Époque, ma da una atmosfera Belle Époque conservata consciamente, volutamente, con civetteria. Sarebbe forse più semplice dire: l’atmosfera di un attuale racconto catanese di Patti. Le posate, i cristalli, la fiandra, le pietanze, il servizio, tutto contribuisce: perfino i discorsi. Si parla, ora, dell’uso del duello: che a Catania, pare, sussiste e va di moda anche oggi. Il motivo, ovviamente, è sempre la donna, l’onore. Si raccontano episodi spassosi di un brillante avvocato della città, non più giovane ma neanche troppo vecchio: grande amatore e grande spadaccino.
Dice il barone:
«Doveva battersi anche qui a Villagrande. Due anni fa. Era d’autunno, come adesso. Ad evitare l’intervento della polizia, per tempo avevo dato ordine a Salvatore, il fattore, di fare il giro della tenuta e di chiudere bene tutti i cancelli e i passaggi. Ma, quando l’ora si avvicina, ecco Salvatore costernato: “Ho chiuso tutto, Eccellenza. Ma a che serve? Guardate sugli alberi”. Gli alberi erano tutti pieni di poliziotti, appollaiati sui rami, occhieggianti tra le frasche. Feci in tempo a fermare ogni cosa. Il duello ebbe luogo altrove.»
«Lei lo conosce, signorina, quest’avvocato?» domando a una delle gentili ospiti.
La ragazza (alta, bruna, sottile, molto bene) annuisce.
«Sarei indiscreto» insisto non tanto per curiosità quanto per inserirmi nella commedia, per partecipare anch’io in qualche modo a questo piacere generale, che stanno provando i miei commensali, di fingersi di vivere cinquant’anni fa «sarei indiscreto se le chiedessi il nome dell’avvocato? vorrei conoscerlo!»
Ebbi, infatti, la gioia di vedere, in risposta alla mia domanda, imporporarsi il bel volto della graziosa fanciulla, infiammarsi fino alla radice dei corvini capelli, esattamente come sarebbe accaduto allora. Come per l’imbarazzo che le avrei procurato, le cadde una ciocca sulla fronte. Se la ravviò con la mano piccola e bruna, mettendo in evidenza il polso lunghissimo, sottilissimo e, al polso, un anacronistico, ironico Rolex.
Anche i vini sono straordinari: come cinquant’anni fa: come prima della fillossera, forse. Del bianco ho già detto. Il rosso del ’48… be’, aveva ragione il barone: sono rimasto sbalordito: avrebbero potuto farmi credere che si trattava di un Barbaresco.
Che peccato che il barone ne avesse così poche bottiglie! D’altra parte, ammesso che una bottiglia di Etna Rosso ’48 come questo si trovi in commercio, varrebbe almeno diecimila lire.
Barbaresco, sì. Continua, irresistibile, l’evocazione del Piemonte. Per il colmo, sapete come si chiama il locale formaggio di capra o di pecora, fresco o appena stagionato? Tuma, si chiama: proprio così: tuma, e cioè con una parola piemontese pura, e che i catanesi perfino pronunciano alla piemontese, senza errori.
Il secolo scorso? o Vittorio Amedeo? o i normanni, i francesi con la loro tomme? Indaghino i glottologi sull’epoca a cui risale la strana identità linguistica, e sulle sue ragioni: io mi accontenterò di osservare che la tuma, magra, pungente, giusta di umidità, salatura e morbidezza, è cibo perfetto per fare onore al Rosso Etna ’48 del barone Nicolosi, al fragrante Nerello Mascalese invecchiato nelle cantine di Villagrande dove fu prodotto: vino raro, vino simile a quell’amico che, quando si ha voglia proprio della sua compagnia, si deve andarlo a trovare fino a casa sua, anche se sta a mille chilometri di distanza.
Alla ricerca del Duca di Càrcaci. Una gentilezza che si traduce in opere. Gusto il Bianco Regaleali.
Prendo appuntamento con l’avvocato Leontini di Noto.
A Catania, naturalmente, cerco Patti. Non c’è. Gli telefono a Roma. È a Venezia. Gli telefono a Venezia. E gli dico tutto, e gli chiedo aiuto: dove posso trovare, in Sicilia, altri vini veri? Mi consiglia di telefonare a un suo vecchio amico, il Duca Guglielmo di Càrcaci; che gli aveva fatto assaggiare, tempo fa, un vino bianco squisitissimo. Che vino? chiedo con ansia. Ercole, lì per lì, non ricorda il nome: «Càrcaci certamente lo sa». Telefono dunque a Càrcaci; ma il numero che mi ha dato Patti non risponde. Il nome del Duca di Càrcaci sull’elenco non c’è. Afferro il Gotha: è il momento! Sono ignorante di araldica; ma non tanto da non sapere i nomi delle più famose, delle più nobili e antiche famiglie siciliane. Sfoglio i volumetti blu savoia. Mi fisso a «Paternò». Le pagine dedicate ai Paternò sono una diecina. Linea di Sperlinga e Manganelli; linea di Ficarazzi d’Aci e di Furnari, ramo di Sessa e San Michele, ramo del Toscano, ramo del Grado; linea di Raddusa e Marianopoli, ramo primogenito, ramo di Spedalotto e Regiovanni; linea di Paternò-Castello, ramo di Biscari, ramo di Càrcaci… Ci siamo! Torno all’elenco del telefono e, sotto «Paternò-Castello», trovo il numero.
Il Duca di Càrcaci mi riceve subito: con gentilezza vera, cioè non solo di modi ma d’animo: gentilezza che immediatamente si traduce in opere. Mi fa gustare, ghiacciato, il Bianco Regaleali del Conte Tasca di Almerita. Diverso dal Bianco Etna. Più di corpo, più vellutato: giallo oro-brillante, secco e profumato, con una finezza di aroma che ricorda i migliori Chablis. È prodotto, però, quasi alla stessa quota del Villagrande: in alta collina, al centro della Sicilia, dove la provincia di Palermo si incunea verso il confine della provincia di Enna. Càrcaci mi dà il numero di telefono del Conte Tasca, che ora è al mare a Mondello.
E anche all’estremo Sud, alle vigne sul mare, dove vorrei andare domani, anche in provincia di Siracusa e di Ragusa, a Noto, a Modica, a Ispica, a Pachino, a Capo Passero, anche là Càrcaci ha un amico: là sono le tenute di Pietro Bruno di Belmonte. Purtroppo, Belmonte, adesso, villeggia a Saint-Tropez. Càrcaci telefona, trova l’intendente, l’avvocato Leontini: col quale prendo appuntamento per l’indomani a Noto.
Primo incontro con lo Sceriffo di Siracusa. La nefasta legge «del taglio» e le conseguenze enologiche dell’Unità d’Italia. Un giudizio di Emilio De Marchi.
L’uovo di Colombo dello Sceriffo. I papiri del fiume Ciane.
Siracusa: meravigliosa città che, vergognosamente, non conoscevo ancora! Città fatta di sole, di aria, di mare, e di Grecia antica. Il Duomo è una trasformazione, un adattamento del tempio di Atena, quinto secolo prima di Cristo. La pietra di queste gigantesche colonne doriche, e di tanti altri templi, chiese, palazzi, monumenti, muri della città, è una pietra chiara, calda, porosa, luminosa: come impastata di miele, indimenticabile, particolarissima. Sarà così anche del vino che si fa nelle campagne intorno? Ci fermiamo agli uffici della Casa Vinicola Arethusa. È un’organizzazione moderna, e modernamente pubblicizzata: che suscita, perciò, tutta la nostra diffidenza. Ma l’entusiasmo per Siracusa è tale che proviamo lo stesso. Un tentativo, un sondaggio. Come se interrompessimo la nostra ricerca per giocare una mano a briscola.
Anticipiamo subito la conclusione: abbiamo trovato due «carichi» L’asso e il tre. L’Albanello e il Moscato di Siracusa.
Lo stabilimento Arethusa è alla periferia della città: alle frange del parco dell’antica Villa Landolina. Proprio davanti, sull’immenso piazzale della Vittoria, si sta costruendo il Santuario della miracolosa Madonna delle Lagrime: e proprio ieri l’altro, per cominciare, hanno inaugurato la cripta: nervature colossali di cemento armato, come nel Palazzetto dello Sport a Roma.
Anima dell’Arethusa è il signor Giovanni Bonvicino, un padovano sicilianizzato da ormai tutta la sua vita: un po’ come uno yankee che sia diventato texano. Robusto, deciso, canuto ma validissimo: capelli all’umberto, baffi all’americana. Concordemente, quasi subito, lo battezziamo «lo Sceriffo»: e glielo diciamo, e lui, di spirito, ci sta. Lo Sceriffo di Siracusa è, dunque, un tecnico, un appassionato del vino. Non nobile lui, ammette tuttavia rapidamente di avere sposato il vino sposando la moglie, una Interlandi-Pizzuti principessa di Landolina, ereditiera delle terre. Ma lo Sceriffo è, soprattutto, un uomo che guarda al futuro. Bisogna sapere che, alla base di tutta la produzione enologica italiana, esiste una disgraziata legge della fine dell’Ottocento: legge che proibisce, sotto pene severissime, di vinificare mediante l’aggiunta di qualsiasi quantità di zucchero, e che, contemporaneamente, impone che il vino tocchi almeno i dieci gradi di alcool. Di questa legge così contraddittoria (perché l’alta gradazione di un vino dipende appunto dalla dolcezza del mosto) si lamenta a lungo Emilio De Marchi, nel romanzo Giacomo l’Idealista, che è addirittura del 1897. Infatti, molti vini della Val Padana, delle Prealpi, dell’Appennino ligure, sono squisiti senza che raggiungano i dieci gradi: specialmente quelli prodotti sul luogo e consumati sul luogo dalla gente del luogo: vini che non devono necessariamente «viaggiare» e che, quindi, non hanno nessun bisogno di un’alta percentuale di alcool per esser protetti da fermentazioni secondarie sgradevoli. Tanto a lungo e con tanta severità fu applicata la legge, che ancora oggi, in tutta Italia, è diffusa la falsa credenza che l’aggiunta di zucchero durante la vinificazione sia nociva alla salute, e che la legge abbia, appunto, questo obbiettivo igienico: mentre l’aggiunta di zucchero è assolutamente innocua, e la legislazione francese, così meticolosa in questo campo, la permette. Lo scopo della nostra legge era ben altro: era, molto semplicemente ma non altrettanto esplicitamente, quello di aiutare i baroni viticoltori dell’Italia meridionale, e in particolar modo delle Puglie e di Sicilia, a vendere i loro mosti, provenienti da terre bruciate dal sole e non irrigate: ricchi cioè di zucchero, generatore di alcool. Nacque così «lo scongiurato meridionale», come lo chiama il De Marchi. Nacque il famoso «taglio», che tanta parte ha nella decadenza dei nostri vini e, soprattutto, delle nostre capacità di gustare il vino. Una vera rovina: sia per i vini settentrionali e centrali, che nel taglio si alteravano: sia per gli stessi vini meridionali che, fatalmente, cominciarono a essere conosciuti ai consumatori del Nord solo attraverso l’impiego che se ne faceva nel taglio, mentre vinificati sui loro posti e con uve vendemmiate non così tardi avevano tutt’altro sapore, erano tutt’altra cosa: molto più secchi, gradevoli, leggeri. La tradizione meridionale, infatti, voleva che le uve fossero raccolte non come accadde dopo la promulgazione della legge, e cioè preoccupandosi prima di tutto del raggiunto grado di dolcezza: ma vendemmiate prima, a tempo giusto, quando non sono ancora così cariche di zucchero.
Il signor Bonvicino giura che, tra qualche anno, la maledetta legge sarà abrogata. Anche noi crediamo che il primo passo per risanare la produzione vinicola italiana sarebbe proprio questo, ma, ahimè, non ne scorgiamo i sintomi annunziatori. Francamente ottimista, lo Sceriffo si prepara a modificare la viticoltura dei vigneti Landolina. È chiaro che, abrogata la legge, i mosti di Puglia e di Sicilia, così come vengono commerciati oggi, ad alto potere zuccherino, non troverebbero più compratori. Che cosa ha inventato lo Sceriffo? L’uovo di Colombo: grandi impianti di irrigazione, alcuni dei quali già funzionano, e che, inumidendo il terreno, diminuiscono automaticamente la dolcezza delle uve; conseguentemente, impianti di altri vitigni, vitigni pregiati del Nord, per esempio Nebbiolo: ha già fatto l’esperimento, con risultati, dice lui, prodigiosi: mi farà assaggiare! Infine, lo Sceriffo sta mettendo in opera diversi altri accorgimenti per rinnovare e modernizzare la tradizionale viticoltura locale. Primissime, le viti non più a filare o ad alberello, bensì a tendone, pergolati alti da terra un paio di metri, e sostegni distanti tra loro due e cinquanta, così che il piccolo trattore da vigneto possa passare in mezzo e sotto: permettendo, tra l’altro, una raccolta semimeccanizzata, molto più rapida e molto meno costosa. Lo Sceriffo ci conduce a Torre Landolina, a dare un’occhiata alle vigne. Per via, si ferma alle foci del fiumicello Ciane, davvero azzurro (come suggerisce il nome greco) in mezzo al verde: e dove crescono, sull’acqua, i papiri. Due famiglie a Siracusa si dedicano esclusivamente a ricavare la carta dalle raggianti pianticelle, secondo i vecchi metodi. Provo un desiderio improvviso di visitare queste cartiere arcaiche. Bisogna rimandare a un altro viaggio. Perché non si hanno tre vite? Torre Landolina è una torre saracena di scolta: un fortilizio, quattro mura irte di fichi d’India, quattro casupole perdute nell’immensità dell’ondulata pianura, tra le vigne, i campi di grano, gli uliveti, gli agrumeti. «Subito dopo la Seconda guerra mondiale» dice lo Sceriffo guardando con una strana espressione di intensità, quasi di violenza, le sue campagne «venne il boom degli agrumi. Per piantare agrumi dappertutto, quante vigne, allora, si tagliarono! Senonché, a un certo momento, ecco la concorrenza di Israele e del Marocco. Taglia gli agrumeti, e ripianta le vigne. Siamo a questo punto.»
Manca poco a mezzogiorno quando salutiamo lo Sceriffo: al ritorno da Capo Passero faremo di nuovo tappa da lui, e allora, col favore della notte, gusteremo finalmente i suoi vini. Sarebbe impossibile ora, sotto questo sole tropicale.
A Noto, in attesa di una pastasciutta. Mia folle fuga in cerca di vino. San Tarcisio con la botticella.
Mia vittoria sull’indifeso Leontini. Un vinello che «non fa quindici gradi». Tre generazioni sotto l’incubo di una terribile legge.
A Noto ci attende l’avvocato Leontini. Sorprendente fantasia urbanistica di questa cittadina. È tutta costruita su un colle: e, a due terzi dell’altezza, attraversata orizzontalmente dalla via principale, corso Vittorio Emanuele: quasi un chilometro in linea retta, che nel suo percorso si allarga, dalla parte della cima del colle, in tre piazze, scenograficamente concluse da tre monumentali scalee che salgono alle facciate barocche di tre chiese, tra le quinte di palazzi decorati di ferri battuti. Il colore della pietra è più caldo di quello di Siracusa: quasi dorato.
L’avvocato Leontini si dispera per l’assenza del suo principale che si trova all’estero, e perché tutta la zona pare sprovvista di un ristorante «possibile». Gli dico di non preoccuparsi, ci basta un panino. Andiamo alla Marina di Noto. Le infinite distese dei bassi vigneti, tra filari di ulivi, tra siepi di fichi d’India. Che bellezza, dappertutto, e che disorganizzazione: e viene il dubbio, purtroppo, che questa sia parte integrante di quella! Alla Marina, per esempio, c’è un enorme stabilimento di bagni abbandonato: tre piani di cemento armato si levano con le loro sovrapposte terrazze e coi loro finestroni, buchi contro cielo, e cornicioni che cominciano a sgretolarsi, e fasci di tondini di ferro che cominciano a uscire dal cemento sfilacciandosi, con un effetto angoscioso e grandioso, come in una veduta surrealista di Fabrizio Clerici. Sulla spiaggia, di qua e di là del ciclopico monumento, non mancano le cabine, né i bagnanti, né frastuono di juke-box, né aranciate: manca, però, tutto il resto. A stento riusciamo a persuadere che ci cuociano una pastasciutta, in una baracca dall’altra parte del lungomare: e sebbene la baracca sia sormontata da una vistosa insegna che dice «Ristorante».
In attesa della pastasciutta, parliamo un po’ del vino con l’avvocato Leontini. Avremmo voluto assistere a una vendemmia. Sull’Etna, ci abbiamo dovuto rinunciare: data l’altitudine dei vigneti, si vendemmia tardi: metà ottobre, né più né meno che in Piemonte. Ma qui, ma in queste zone torride?
«Eh, no!» dice Leontini «non ci siamo ancora: sa, qui è tutto, o quasi tutto, vino da taglio.» Tocchiamo così con mano, un’altra volta, le conseguenze della famosa legge. Si aspetta a vendemmiare perché le uve siano più dolci, sempre più dolci, generatrici di un grado alcoolico sempre più alto. Col grado alcoolico, cresce proporzionalmente il prezzo a cui si può vendere il mosto.
Siamo a tavola, sgranocchiamo pane. I discorsi mi hanno dato pizzicorino non esattamente di acqua minerale. Eppure, nel «Ristorante», c’è solo acqua minerale. Non considero vino, e non nomino neanche, le bottiglie etichettate come vino, che abbiamo fatto aprire tutte, e che abbiamo respinto inorriditi. Mi levo: e parto, follemente, in cerca di «vino»: ci sarà bene qualche contadino, qualcuno che beve vino, qui intorno? Non è altro, il vino che voglio provare: vino del posto, fatto sul posto, e bevuto sul posto da gente del posto: oh! Ma l’avvocato Leontini, dopo avere invano tentato di trattenermi, mi segue con uno sguardo di compatimento, crollando la testa, e confessando, lo vedo, all’orecchio di Bòccoli, la sua incrollabile sfiducia nella mia impresa. Avanzo sul lungomare, sparso di rare casupole o baracche. Il mare, il vento, il sole, la spiaggia, la campagna con i suoi uliveti e con i suoi vigneti che arriva fino qui… che cos’è, mi chiedo, il segreto della Sicilia, della sua estrema bellezza, del suo incanto misterioso e onnipresente?
Non c’è alcun dubbio: questo segreto è lo spazio, la grandiosità, la grandezza di tutte le sue strutture, che sono ancora feudali, ad ampie linee, a immensi orizzonti: e mai sminuzzate, mai cincischiate, mai piccolo-borghesi! D’altra parte, come siamo indietro, in Sicilia. Prendiamo, ad esempio, soltanto il turismo. Quanto c’è da fare. Assale un dubbio atroce: resterà così bella, la Sicilia, il giorno che sarà invasa dal progresso? oppure questa meraviglia è necessariamente legata ad una relativa arretratezza? E anche se la risposta, come speriamo, è negativa: anche se la Sicilia diventerà in futuro un paese comodo non soltanto per i baroni ma per tutti quanti senza per ciò perdere la propria bellezza e la propria grandiosità, il progresso non dovrà forse, anche qui, passare, prima, attraverso la fase del cattivo gusto piccolo-borghese? Intanto, vino: niente. Non trovo nessuno che ne venda. Già, rassegnato e contrariato, mi avvio al ritorno, solo sotto il sole, attraverso l’asfalto dell’interminabile lungomare, allorché, dal verde della campagna, salta sulla strada un ragazzino: avrà otto anni, cammina a piedi nudi, rapido: ciuffo nero, aria sveglia, maglietta a righe bianche e blu: e stringe tra le braccia, contro il petto, una graziosissima botticella a forma leggermente schiacciata: a sezione ovale, diciamo.
«Che porti?» gli chiedo, ma senza speranza: forse attratto unicamente dalla forma della botticella: «acqua?»
Il fanciullo non rallenta l’andatura e risponde serio:
«Acqua no.»
Mi batte il cuore:
«Hai del vino?»
«Lo vado a cattare.» Capisco con un secondo di ritardo: ma sì, diamine: è sempre la parola piemontese, caté, o la parola francese, acheter, che torna! Perché, ogni volta, mi devo stupire tanto? La Sicilia è il succo di tutta l’Italia.
«E dove vai a cattarlo?»
«Là» dice il bambino, accennando davanti a sé. È un bar, in una baracca schiacciata dal sole: l’avevo esclusa dalla ricerca per un elementare riguardo: è attigua al nostro «Ristorante».
«E dove lo porti, il vino, quando l’hai cattato?»
Mi spiega che lo porta a una casa qui vicino, in mezzo alla campagna: dove il papà e i fratelli lavorano alla raccolta delle mandorle.
È vino locale. Lo provo: spillato dalla botte, fresco, amarognolo, pungente come tutti i vini siciliani: ma sostanzialmente gradevole: e certamente genuino. «Fa quindici gradi!» dice il bettoliere per vantarlo, e per giustificare il prezzo, abbastanza elevato. Gli dico di riempirmene due vuoti di acqua minerale. Intanto, finisce di riempire la botticella. Il ragazzino paga con moneta che teneva, contata, in mano. Gli do una mancia, per avermi insegnato il vino buono. Ringrazia con dignità, afferra la botticella, saluta, parte col suo passo rapido e leggero. San Tarcisio! penso, guardandolo che si allontana, così piccolo, verso l’infinita campagna: davvero, stringe il vino al petto come se ancora fosse Gesù.
Ritorno al nostro tavolo. Vittoria! Vittoria sull’indifeso, sul mite Leontini: il quale, tuttavia, posando il bicchiere:
«Ma non fa quindici gradi!» esclama con disprezzo: «È un vinello qualunque!»
Vinello, senza dubbio, vinello qualunque: undici, al massimo dodici gradi, che per la Sicilia è poco. Ma, e con questo?
Purtroppo, nelle provincie di Siracusa e Ragusa, dopo tre generazioni di enologi e di vinificatori vissuti sotto l’incubo e sotto il pungolo della terribile legge, la gradazione alcoolica, simbolo del prezzo di un vino, è diventata a poco a poco, assurdamente ma irresistibilmente, simbolo della bontà di un vino.

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