#LietiCalici vuol essere un piccolo nodo di questa lunga e nobile storia!
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venerdì 27 novembre 2020
mercoledì 25 novembre 2020
Gino Veronelli secondo i Fratelli Barba, vignaioli ( eccellenti) abruzzesi!
Luigi Veronelli, uno dei più grandi critici enogastronomici italiani e non solo, durante una degustazione avvicinava il calice all’orecchio: diceva che il vino va ascoltato, intenso prima di tutto come “atteggiamento mentale”
martedì 24 novembre 2020
dall'articolo di Jacopo Cossater alle parole di Francesco Maule
E loro sono stati i pionieri dei vini naturali e dei bianchi macerati, intesi in senso attuale e non per tradizione. Hanno innovato, imparando i valori dai loro vecchi e nuove tecniche girando il mondo.
domenica 22 novembre 2020
CALABRIA - CIRO' MARINA - KR - AZ. AGRICOLA 'A VITA - DI FRANCESCO MARIA DI FRANCO
Qui siamo di fronte a uno di quei viticoltori capaci di farsi carico della responsabilità di restituire dignità a un vitigno e a un territorio. Quando pochi anni fa Francesco Maria De Franco, architetto convertito all'agricoltura, è tornato a Cirò per occuparsi delle vigne di famiglia con l’intenzione di cominciare a produrre vino, il panorama enologico della denominazione era caratterizzato soprattutto da produzioni massive e omologate. La tendenza era all'incirca la stessa già denunciata da Mario Soldati nel terzo viaggio di Vino al vino (autunno 1975), vale a dire quella che fa regolarmente riferimento a modelli estranei lla storia e alle caratteristiche del territorio. La solita prescrizione ineludibile degli uffici marketing, il solito saggio consiglio su come deve-essere il vino: peccato che dalle parti di Cirò la viticoltura sia una questione quotidiana da qualche migliaio di anni. In ballo, neanche a dirlo, c’era il progetto di modifica del Disciplinare del Cirò poi approvato nel 2010, al quale De Franco si è opposto con tenacia in compagnia di pochi altri, peraltro in un luogo nel quale la battaglia era più dura come sempre accade quando si è lontani dai riflettori. La modifica è passata e oggi la situazione non è troppo diversa da allora, ma quella lotta ha dato i suoi frutti: così un gruppo di giovani aziende sta dedicando speranze, progetti ed energie alla riscoperta di un vitigno che, se assecondato nelle sue peculiarità, può dare vita a vini straordinari. Capofila di questa nouvelle vague è lo stesso De Franco, che ha sbalordito tutti fin dalla prima vendemmia con un vino vecchio stile e in virtù questo modernissimo, testimonianza inequivocabile di territorio e manifesto delle enormi potenzialità del gaglioppo. Si tratta del Cirò classico Superiore ‘A Vita (la vite), prima annata imbottigliata 2008, che si è imposto all'attenzione di pubblico e addetti ai lavori per la grande forza espressiva. Sensuale ed evocativo, è dotato di una corrispondenza gusto-olfattiva con pochi paragoni; tensione tannica, intensità alcolica e ritorni ne fanno uno dei vini più piacevoli da tenere in bocca in assoluto. Il potenziale in termini evolutivi va verificato ma è senza dubbio notevole, come confermano i millesimi successivi. De Franco produce anche un rosato di gaglioppo che ha esordito dando l’impressione di un vino giocato “in difesa” ma che sta crescendo. Ci sentiamo di affermare che la Calabria del vino può ripartire da qui, da questo luogo e da questo produttore: perché al di là della statura qualitativa rimane l’esempio prezioso di un vignaiolo che ha il merito di avere aperto la strada ad altri giovani e che, è facile prevederlo, continuerà a offrirci in ogni bottiglia un atto di resistenza.
vini:
Cirò Rosso Classico
Sup ‘A Vita (gaglioppo),
Cirò Rosso Superiore F36
P25 (gaglioppo)
CONTATTI:
Strada Statale 106 S.S. 106
Km 279,8
Cirò Marina (KR)
0962.31044, 329 0732473
vigna.defranco@gmail.com,
avita.info@gmail.com
www.vignadefranco.
blogspot.com,
www.avitavini.blogspot.it
Fonte: Prima Edizione di 'Vino Critico' a Cura di Officina Enoica edito da Altreconomia
Gli appunti di viaggio di Vite in fermento LUOGHI SOGNATI - BEDALES, LONDON November 21, 2020 di Marzia Pinotti
Mentre riordino la libreria, ritrovo una scatola di cui non ricordavo l’esistenza: dentro ci sono i biglietti da visita di tutti i ristoranti che ho frequentato nel corso della mia vita. Mi metto a sfogliarli con un misto di affetto e nostalgia, come se fossero un mazzo di carte, lentamente, uno per volta. A ciascuno è legato almeno un ricordo. In questi tempi immobili per me sono tutti luoghi ugualmente irraggiungibili: al di là del coprifuoco, alcuni sono lontanissimi, altri sono chiusi fino a nuovo ordine, altri ancora non esistono più.
Il Mulino di Semproniano, ad esempio, luogo che ho amato follemente, e che mi manca da morire. Come dimenticare Pina e i suoi pici al ragù bianco di coniglio? Un piatto da far resuscitare i morti. Ci sono andata per anni, e la sua cucina valeva il viaggio fino in Maremma. I muri esistono ancora, ma è un luogo svuotato di senso da quando lei se n’è andata. Pina, con il suo cappello torreggiante, raccoglitrice instancabile di erbe selvatiche e cuoca sopraffina. Un giorno ha chiuso i battenti per riaprirli altrove, in qualche località di mare. Motivi familiari, come talvolta accade.
E che dire di Le Grand 8, a Parigi, sotto Montmartre? Ci sono stata solo una volta, in un momento difficile della mia vita, e l’ho amato a prima vista. Lo ricordo come un luogo in cui sono stata felice per un paio d’ore, un’oasi in cui potermi abbandonare alle cure amorevoli di una cameriera senza dover pensare a nulla, dimenticandomi incolpevolmente delle mie paure. Vino perfetto, cibo perfetto. Una insalatina di cuore a pezzetti, che un po’ assomigliava al mio. Un anno dopo non esisteva già più. Chiuso. Chissà perché.
E La Coldana, a Lodi? Non era forse un miracolo godere della cucina di Daniele Lunghi per una volta tanto a pochi chilometri da casa? Ho goduto della sua cucina per qualche anno, finché qualcuno si è accorto che era troppo bravo per una zona in cui qualunque guizzo viene silenziosamente spento, e lui se n’è andato a spargere felicità altrove - prima a Volpedo, e poi ad Alassio. Ricordo ancora le sue capesante con spinacini e frutto della passione, e una créme brûlée alla lavanda che mi sogno ancora oggi.
Guardo quella scatola e penso che, più che un album di ricordi, è diventata una sorta di cimitero dei miei angoli di paradiso... Ma per fortuna non tutti quei biglietti appartengono al passato. Poco dopo mi ritrovo tra le mani il biglietto di Locanda Mariella, a Fragnolo di Calestano, sulle colline di Parma, un altro dei miei luoghi del cuore, rimasto chiuso per mesi fino all’estate, poi costretto a chiudere alle ore 18, e infine richiuso del tutto da quando l’Emilia Romagna è diventata zona arancione. Un altro luogo del cuore la cui sopravvivenza è appesa a un filo, come d’altronde tutti quei ristoranti rimasti chiusi per mesi, poi riaperti, e ora chiusi di nuovo. Quanti sopravviveranno alle misure restrittive dettate dalla pandemia? Quanti finiranno nel cimitero degli angoli di paradiso che tengo tra le mani?
A un tratto, senza alcun preavviso, riemerge il ricordo di un piccolo rifugio dalla folla sotto le arcate della ferrovia, muri in mattone annerito dal tempo e dallo smog, uno squarcio d’azzurro e la bottiglia giusta sul tavolo. Bedales! Che nostalgia! Scartabello i miei biglietti ed eccolo lì il foglietto allungato color nocciola! Mostra i segni del tempo: per molti anni l’ho usato come segnalibro…
Bedales è una piccola enoteca che si trova a Londra, sulla riva sud del Tamigi, a Southwark, nel cuore del Borough Market. È un luogo magico. Solo qualche tavolino, davanti a una grande vetrata a riquadri, da cui si osserva, inosservati, la vita scorrere là fuori. Per molti anni ho creduto che fosse il nome spagnolo della proprietà, e così l’ho pronunciato - BE-DA-LES – ma in realtà è solo il nome della via in cui si trova, Bedale Street.
Ogni volta, me ne stavo lì seduta per ore a osservare il mondo agitarsi al di là del vetro. Sul lato opposto della strada file interminabili di turisti in coda in attesa di un panino ripieno di pasticcio di maiale, e attorno a me un flusso continuo di avventori che si avvicendavano ai tavoli, consumando pasti veloci prima di rimettersi in cammino. Solo io mi godevo lo spettacolo, assaporando con un ritmo tutto mediterraneo ottime tapas, olive, acciughe del Cantabrico, diversi tipi di pane (vero pane, di quello fatto con lievito madre!), taglieri di formaggi francesi e piattini di pata negra, provenienti dai banchi del mercato di Borough. Prima di ordinare, sceglievo la bottiglia giusta direttamente tra quelle coricate sulla rastrelliera che occupava tutta la parete. Ricordo degli Chenin Blanc, quattro o cinque etichette, e due bottiglie familiari – un Dinavolino e un Verduzzo di Bressan – che vegliavano su di me dalla vetrinetta e mi facevano sentire a casa.
Fuori the mob – la folla – mugghiava senza sosta come il mare in tempesta. Un rumore di fondo, feroce e ferino, che non si interrompe mai, nella sua caccia ossessiva alla ricerca di cibo. Londra cos’è se non un grande ventre da sfamare a tutte le ore del giorno e della notte? Dopo chilometri e chilometri percorsi a piedi (non conosco altro modo per attraversare Londra), tra viuzze e strade secondarie, lì dentro riprendevo per un attimo fiato prima di ributtarmi nella mischia.
Lì, come ho scoperto l’ultima volta che ci sono stata, c’è anche una terrazza che si affaccia direttamente su Borough Market, il paradiso della gastronomia a Londra. Vuoi delle ostriche e dei frutti di mare? Desideri formaggi italiani e francesi? Cerchi del pane di Altamura o dei Pretzel, del Pata Negra o del San Daniele, dei tartufi o dei porcini secchi? Ebbene, qualsiasi cosa tu stia cercando, lì c’è. A prezzi esorbitanti, ovviamente. Da lì, con la bella stagione, si gode una buona visuale direttamente sui banchi del mercato. I lucernai sopra la struttura in ferro dipinta di verde lasciano entrare molta luce naturale, e il mercato assume i caratteri di un luogo gioioso, quasi di festa.
Io, però, preferisco di gran lunga l’atmosfera che si respira nella saletta buia che dà su Bedale Street: il tavolino pieno di bottiglie e bicchieri, il brusio di sottofondo, gli sguardi tra i tavoli, e le conversazioni importanti, l’aroma consolatorio di un buon vino, mentre la gente si siede e si alza di continuo, e i camerieri ti danzano attorno, sfiorandoti appena… Quanto mi manca quel senso di libertà.
Seduta sul divano di casa mia, mi rigiro il cartoncino tra le dita. Londra. Chissà quando ci potrò tornare. Esisterà ancora il Bedales? Non ho il coraggio di aprire internet e scoprirlo.
Per me esiste. Ed è quanto.
Di MARZIA PINOTTI: divide la sua esistenza tra l’insegnamento, la scrittura e il vino. Viaggiatrice, sommelier ed enologa, più che wine writer, ama definirsi wine-storyteller: narratrice di storie intorno al vino. Da anni intervista vignaioli, cammino per vigne e indago sulla natura profonda dei vitigni attraverso l'Italia.
La Barbera è femmina è il mio primo libro, ma il mio lavoro di ricerca continua.
Dal suo BLOG: http://www.viteinfermento.it
sabato 21 novembre 2020
CALABRIA - Cirò Marina (KR) - AZIENDA AGRICOLA ' SERGIO ARCURI
l’Azienda
La nostra azienda, inizia a Cirò nel 1880 con il bisnonno Peppe, avendo forte passione per la coltivazione della vite e grande spirito di sacrificio, con semplici attrezzi agricoli, lavorava la terra e trasportava il raccolto con cavalli ed asini
Nostro padre Peppe, nato nel 1931, già a 9 anni a fianco di suo nonno nella coltivazione della vigna, ereditò da lui esperienza e tecnica di vignaiolo, divenendo ben presto innestatore e coltivatore di viti (sono centinaia di ettari di viti innestate da lui con successo nel corso della sua gioventù) nonché qualificato produttore di vino rosso genuino, ricavato da propria uva “gaglioppo” tipica della zona.
Aprì nel 1973 una sua cantina, continuando le attività di produzione e vendita di vino sfuso, soddisfacendo così le richieste dei clienti sempre più numerosi ed esigenti. Dal 2009, dopo lavori di ammodernamento della cantina paterna, io, Sergio, e mio fratello Francesco, coadiuvati da papà, abbiamo avviato l’imbottigliamento del nostro vino. Produciamo sinora un Cirò rosso classico superiore “Aris” ed un rosato “Il Marinetto”, essi nascono da vigneti esclusivamente biologici, di cui due ettari coltivati ad alberello a bassa resa, 60/70ql per ettaro (un ettaro impiantato nel 1945, l’altro nel 1980), invece circa due ettari sono stati impiantati nel 2005 a cordone speronato.
La nostra filosofia
• potatura,spollonatura eseguita manualmente;
• coltivazione personale del vigneto senza l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi,rispettando la vita ed i suoi cicli naturali;
• esclusione totale di diserbanti e/o pesticidi;
• impiego di concimi naturali e sovesci di leguminose;
• raccolta manuale delle uve,perfettamente sane ed a giusta maturazione,riposte delicatamente in apposite cassette;
• per ogni tipo di vino prodotto,massima attenzione nella scelta della relativa vigna da coltivare e del tempo di vendemmia delle sue uve;
• fermentazione tradizionale in vasca aperta detto “palmento”, ottenuta grazie ai lieviti naturali presenti sull’uva che danno al vino un gusto vero ed unico;
• nessuna aggiunta ai mosti di anidride solforosa (questa inibisce i lieviti e la fermentazione potrebbe bloccarsi) o di altri additivi e nessun intervento chimico su di essi;
• no assoluto ad aromatizzanti biologici e/o chimici;
• maturazione dei vini sulle proprie fecce fini sino all’imbottigliamento;
• la solforosa totale presente nei vini è sempre inferiore a quanto consentito dal regolamento per i vini biologici.
Può capitare di trovare dei sedimenti nel fondo della bottiglia che sono indici di genuinità.
I Vini
Più Vite, riserva
SCHEDA TECNICA
Uve: 100% gaglioppo “biologico”
Sistema di allevamento: alberello
Nome del vigneto: piciara
Resa per ettaro: 60/70 quintali
Esposizione: nord-sud
Altitudine: 3m s.l.m.
Composizione terreno: argilloso
Affinamento: 4 anni vasche in cemento e 1 anno in bottiglia
Formato bottiglia: 750ml e magnum da 1500 ml
Grado alcolico: 14,5°
ARIS Cirò D.OUve: 100% gaglioppo “biologico”
Anno di impianto: 1980
Resa per ettaro: 60/70 quintali
Esposizione: sud-ovest
Altitudine: 105m s.l.m.
Composizione terreno: argilla, limo e sabbia rossa
Affinamento: in acciaio per 18 mesi e 3 in bottiglia
Formato bottiglia: 750ml
Grado alcolico: 14°.C., rosso classico superiore
Il Marinetto, rosato Calabria I.G.T.
SCHEDA TECNICA
Uve: 100% gaglioppo “biologico”
Sistema di allevamento: alberello
Nome del vigneto: marinetto
Resa per ettaro: 90/75 quintali
Esposizione: sud-ovest
Altitudine: 50m s.l.m.
Composizione terreno: calcareo e poco argilloso
Affinamento: in acciaio con una breve permanenza in bottiglia
Formato bottiglia: 750ml
Grado alcolico: 13,5°
Contatti:
Azienda Agricola
‘ Sergio Arcuri ‘
Via Roma Vico III, 3
88811 Cirò Marina (Kr)
CALABRIA – ITALY
P.Iva IT 02296490796
Tel. +39 328 0250255
www.vinicirosergioarcuri.it
info@vinicirosergioarcuri.it
giovedì 19 novembre 2020
La Calabria onesta che dona a chi svolge da anni il suo lavoro in modo professionale ed irreprensibile: L' ACINO VINI DI DI DINO BRIGLIO NIGRO
In silenzio e senza fare rumore, anche quest'anno Dino Briglio Nigro dell'Azienda l'Acino ha donato non so quante bottiglie di Malvasia ad #Emergency.
'Anche quest’anno siamo lieti di aver donato un
pò del nostro vino Giramondo ad Emergency, che sarà venduto negli spazi di Natale Emergency, per raccogliere fondi da destinare alle vittime di
guerra in Afganistan e in Iraq, a cui l’associazione offre cure gratuite e di
elevata qualità.
Il nostro vino Giramondo,
da uve Malvasia 100%, sarà presente nei mercatini Emergency di Trento,
Cagliari, Brescia, L’ Aquila e Genova.'
E come Lieti Calici vorremmo che questo Vino i cui proventi andranno interamente ad #Emergency fosse presente in tutte le Città o in tutte le case degli italiani, quelli che ancora credono ad un altro Mondo Possibile.
Adesso tocca a noi, come dice Dino, far la nostra parte.
Il VINO:
La malvasia è un vitigno che è presente in tutto il Mediterraneo, si è diffuso in Italia grazie al commercio che ne fecero i veneziani dall’ isola di Creta, a partire da 600 anni fa, e la malvasia di Candia, appunto l’ antico nome di Creta, è il biotipo più diffuso sul suolo italiano, ma altri cloni sono presenti in pratica in tutte le regioni italiane.
Un vitigno vinificato con stili e tecniche diverse in ogni regione, dai grandi passiti di Bosa in Sardegna o delle Lipari alla malvasie macerate del Carso e del Collio.
La Malvasia sempre presente nelle vecchie vigne calabresi, un vitigno resistente, popolare che riesce a dare vini eleganti e di longevità, soprattutto se coltivata su terreni come quelli da cui ricaviamo la nostra malvasia
Età del vigneto: 15 anni Varietà: 100% Malvasia
Altitudine del vigneto: 650 m nel Parco Nazionale del Pollino Viticoltura: cordone speronato
Estensione: 1, 2 etteri
Suolo: Prevalentemente scisto
Resa per ettaro: 60 quintali
Bottiglie prodotte: 6000
martedì 17 novembre 2020
Da #ENOIZE: Oggi vi parliamo dell'Azienda Agricola I Botri di Ghiaccioforte
sabato 14 novembre 2020
PIEMONTE - COSTA VESCOVATO: TRA ALESSANDRIA, PAVIA, GENOVA E PIACENZA. AZ. VALLI UNITE.
Ottavio Rube, fondatore di Valli Unite, ci ha raccontato il valore positivo della campagna, sia come strumento in grado di garantire un futuro migliore, sia come strumento di riscatto sociale. In un'ottica di rispetto e condivisione, dove il motto è “lasciare la terra meglio di come si è trovata”.
Siamo a Costa Vescovato, un comune dei Colli Tortonesi, precisamente sul cosiddetto Appennino delle Quattro Province, un crocevia tra Alessandria, Pavia, Genova e Piacenza. In questo territorio, fortunatamente ancora non troppo antropizzato, si estendono i boschi e i campi della Cooperativa Agricola Valli Unite.
“Io sono nato in questo comune”, afferma Ottavio Rube, fondatore e presidente della cooperativa. “Sono figlio di contadini, come gli altri soci che hanno fondato la Cooperativa: Enrico, Cesare e, poi, Carla. Sono nato qua e volevo semplicemente fare il contadino a tutti i costi. É la mia grande virtù, altro non so fare”.
Tutto ebbe inizio nel 1975 quando Ottavio e i suoi amici hanno iniziato a parlare di cooperativa: “Non è stato un caso – ci confessa Ottavio – avevamo voglia di cambiare il mondo, sognavamo tanto, sogniamo ancora tanto, ma allora di più”. Un vero e proprio vento del cambiamento, sicuramente influenzato dal clima sessantottino, che per questi giovani cresciuti sui colli tortonesi altro non significava che unire le forze. Così nel 1976 nasce la prima Associazione.
All’epoca Ottavio, Cesare ed Enrico erano proprietari di tre piccole aziende agricole, ma i terreni erano ancora troppo pochi, per poter fare una cooperativa. “Ci servivano più terreni – ci racconta Ottavio – e faticosamente abbiamo recuperato i poderi più marginali e più scadenti e, piano piano, siamo arrivati a questi 80 ettari lavorativi più 20 a pascolo”.
Inizialmente Valli Unite nasceva con l’idea di agglomerare più paesi e fare una stalla sociale; in quegli anni avevano chiuso tutti gli allevamenti e si iniziava a dipendere dalle industrie che producevano concimi chimici e anticrittogamici. “Noi volevano ricostruire l’equilibrio, volevamo avere gli animali in azienda, che è anche alla base dell’agricoltura biologica e della biodinamica”.
La chiave di volta, che ha permesso alla cooperativa di crescere in modo non troppo energivoro, è stata proprio la scelta di inserire Valli Unite all’interno di un’economia agricola e non all’interno di un’economia che copiava un modello più speculativo. È stata una scelta controcorrente rispetto alle norme che venivano suggerite alle nascenti cooperative dell’epoca. Ci spiega Ottavio: “Ad esempio, tutti ci volevano far costruire stalle di cemento armato alte 5 metri e copiate dall’industria. Noi abbiamo scelto di fare stalle con legname di recupero, quello che veniva buttato via dalle ferrovie. Non è stato facile, è stata la nostra prima battaglia vinta. Erano anni di sogni, ma erano anche anni di scontri”.
Un’idea del recupero che tuttora accompagna i soci e i lavoratori di Valli Unite, che nel tempo hanno saputo recuperare: tanti terreni incolti; alpeggi abbandonati dove fare pascolare gli animali nell’ottica di tenerli il meno possibile in stalla, acqua piovana – “per caduta e senza mezzi elettrici” – per bagnare a goccia tutto l’orto, legna dai boschi per il riscaldamento e, da qualche anno, si sta sperimentando anche la bioedilizia. Infatti, l’ultima costruzione sul terreno di Valli Unite è stata realizzata con paglia, legno e terra del luogo.
Il concetto del recupero si unisce anche all’utilizzo parsimonioso delle risorse. “ Valli Unite – sottolinea Ottavio – ha un’attenzione particolare per l’acqua, per la terra e per l’ambiente”. Un vero esempio di come si può vivere bene e fare economia in una piccola parte di terra, anche perché ogni prodotto che Valli Unite produce, viene venduto il più direttamente possibile. Specifica Ottavio: “Abbiamo lo spaccio, abbiamo l’agriturismo, abbiamo degli appartamenti per l’ospitalità, facciamo la farina, vendiamo il miele. Abbiamo cercato di costruire un insieme di piccole economie”.
Oggi Valli Unite conta 35 lavoratori, 20 dei quali sono soci. Un aumento esponenziale anche grazie al ricambio generazionale che si è vissuto nel tempo. “Abbiamo seminato bene – racconta Ottavio soddisfatto – più con la gente che con i semi. Ci sono tante persone che girano intorno a noi. Abbiamo dato una mano a crescere ad altre aziende. Siamo partiti da una realtà di un mondo contadino che si voleva estirpare. Noi abbiamo lavorato molto su questo, sul recuperare un orgoglio che volevano in qualche modo distruggere. Oggi c’è una considerazione positiva della campagna, non è solo bassa, ma è anche alta, anzi tocca il cielo”.
Costa Vescovato oggi conta una decina di aziende tutte giovani: 7 che imbottigliano il vino, 1 birrificio artigianale, 3 agriturismi, 2 spacci alimentari, 9 impianti fotovoltaici che rendono questo comune dal punto di vista energetico quasi autosufficiente. Ma la cosa più importante di tutte è che qua ci sono tanti bambini: “La presenza delle nuove generazioni è importantissima perché fa sì che questo posto abbia un futuro, quel futuro che ci volevano negare 40 anni fa”, precisa Ottavio.
Un luogo di incontro aperto alle contaminazioni e all’arrivo del nuovo. In quest’ottica è stata costituita l’associazione I Forestieri, che ha lo scopo specifico di supportare chi decide di lasciare la città per tornare alla campagna. L’associazione raccoglie dati nei comuni rispetto alle case disponibili e, attraverso il wwoofing, viene data la possibilità di sperimentare un lavoro, magari mai provato prima. Un modo per facilitare la strada a chi vorrebbe modificare il proprio stile di vita.
Valli Unite è indubbiamente una realtà dalle mille sfaccettature. Un modo di condividere lo spazio e il lavoro, senza però rinunciare alla propria individualità. A Valli Unite i lavoratori condividono il pranzo, ma a cena ognuno sta con la sua famiglia. Un modo vincente per tutelare la propria vita privata, ma contemporaneamente farne un “uso” comune.
Un’Italia che Cambia rimanendo coi piedi per terra, un’Italia che vede l’agricoltura come futuro, nonostante il mondo stia andando in una direzione opposta. Conclude Ottavio: “Il grande esempio che vogliamo dare noi da Valli Unite è dimostrare che tutti possiamo vivere bene in questo mondo facendo economia, stando insieme, investendo anche, ma sfruttando il terreno il meno possibile”.
A VALLI UNITE CI SONO RIUSCITI!
https://www.italiachecambia.org/2018/09/io-faccio-cosi-223-valli-unite-orgoglio-contadino/?fbclid=IwAR1iF0TRFT8EPggeyQFKlWi4Pw7RNpvHuRUvcfNfatBLSNsGHM3Xlgcczcw
Intervista realizzata da Daniel Tarozzi e Paolo Cignini. PER ITALIA CHE CAMBIA