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sabato 24 aprile 2021

Il 25 aprile di LIETI CALICI: La Resistenza nel vino? Capitolo 1. Le Langhe

 

Una delle patrie enologiche più importanti d’Italia, le Langhe, sono state scenario di alcune delle pagine di letteratura più toccanti della Resistenza antifascista. A partire dalla Malora di Beppe Fenoglio, la cui eco arriva fino a noi e si amplifica grazie ad etichette che ricordano episodi di resistenza civile.

L’articolo fa parte della Monografia “Resistenza!”
(Civiltà del bere 1/2021)

I Paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato Patrimonio Unesco sono oggi un riferimento per appassionati di vino, nonché meta di turisti da tutto il mondo. Queste colline rigate di vigneti e tempestate di Cantine rappresentano prima di tutto un ambiente culturale plasmato dalla storia, compresa quella che molti nonni – avendola vissuta in prima persona – hanno raccontato ai loro nipoti: la storia della Resistenza.

Le vigne raccontano una storia

Vino e cultura sono stati i due requisiti fondamentali per elevare queste terre a Patrimonio dell’umanità. Camminando tra i filari si odono sussurrare i versi di grandi scrittori come Cesare Pavese; si nascondono le ultime cascine de La malora di Beppe Fenoglio; si tramandano le testimonianze di vita contadina de Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. E non è un caso che il successo attuale del vino qui prodotto passi anche attraverso l’impegno civile e la lotta per la libertà della Resistenza partigiana.

Il giorno della malora

Come racconta Bianca Roagna, direttrice del Centro Studi Beppe Fenoglio e sommelier: «Ai visitatori mostro sempre una foto molto rappresentativa di un passato non troppo lontano. Immortala i contadini che dalle campagne scendevano in città, ad Alba, in quella che oggi è la piazza dedicata a Michele Ferrero, per conferire le uve. I compratori aspettavano fino all’ultimo minuto e i vignaioli, pur di non riportare a casa il frutto di un anno di duro lavoro, erano costretti a venderle per pochi soldi. Mio nonno lo chiamava “il giorno della malora”». Ma grazie ad alcune menti illuminate le cose cambiarono: «I grandi patriarchi del vino di Langa dopo la Resistenza hanno fatto in modo che il corso di queste terre cambiasse», continua Bianca Roagna.

Una vita intrecciata alla vite

Il perché della connessione tra la storia della Resistenza, la letteratura e il vino si può rintracciare nelle parole dello scrittore e partigiano albese, che seppe raccontare quelle Langhe allora poverissime e resistenti. “Sono nato in Alba il 1° marzo 1922 e in Alba vivo da sempre, a parte le lunghe assenze impostemi dal servizio militare e dalla lotta partigiana. La mia attività base è quella di dirigente d’industria: più precisamente, curo l’esportazione di una nota Casa vinicola piemontese”, scrive di sé Beppe Fenoglio (Lettere). Così anche la vita dello scrittore si intrecciò in qualche modo alla vite piantata in questa terra a quel tempo così misera e di cui si trova toccante e spesso brutale testimonianza ne La malora.

La voce del partigiano Johnny

Mentre Il partigiano Johnny si fa voce storica ma incredibilmente attuale dello spirito partigiano: “E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up”.

Lo spirito partigiano in Cantina

Tanti produttori di Langa vissero attivamente la Resistenza e fecero tesoro di quell’esperienza anche negli anni a venire. Due storie curiosamente agli antipodi, anche se mosse dallo stesso spirito, sono quelle di Bartolo Mascarello (1927-2005) e Arnaldo Rivera (1919-1987). Il primo è divenuto un punto di riferimento per la tradizione del Barolo e il suo vigneto di appena 5 ettari per 30.000 bottiglie l’anno è oggi custodito e tramandato dalla figlia Maria Teresa. L’impegno di Bartolo Mascarello per preservare il Barolo dall’avvento spesso troppo invasivo delle barrique costituì una vera e propria Resistenza al modernismo in tutte le Langhe.

Il comandante “Arno” Rivera

Anche la storia del comandante partigiano “Arno” Arnaldo Rivera è altrettanto esemplare e lungimirante. Dopo la guerra Rivera tornò al paese natale, Castiglione Falletto, dove svolse le attività di maestro elementare e di sindaco e sempre qui, nel 1958, fondò la Cantina cooperativa Terre del Barolo. L’iniziativa nacque in primo luogo dalla volontà di giustizia sociale e dall’intento di tutelare quei contadini sfruttati e costretti a svendere l’uva al mercato di Alba. «È stato uno degli uomini più rispettabili della nostra Langa», disse di lui Bartolo Mascarello, e dal 2013 ad Arnaldo Rivera è dedicato un progetto frutto di un protocollo ufficiale sottoscritto tra la Cantina e alcuni soci per ottenere la massima qualità dalla vigna alla bottiglia. Attualmente Terre del Barolo può contare su 600 ettari di vigneto e quasi 300 soci; nel 2020 è stata riconosciuta dalla rivista tedesca Weinwirtschaft come miglior Cantina cooperativa italiana.

Partigiano per sempre

A partire da Agostino de La malora, Bartolo e Arnaldo sono due esempi di riscatto in questa terra un tempo avara e oggi così generosa; e quello della Resistenza è dunque uno spirito libero che ha scavalcato gli anni e le colline ed è arrivato fino ai giorni nostri. “Partigiano in aeternum”, per dirla ancora una volta con le parole di Beppe Fenoglio.

La vigna si fa cattedrale

“La prima cosa che facevo da alzato era guardare dalla finestra se la mia terra c’era ancora”, racconta Agostino, il protagonista de La malora di Fenoglio. «Queste sono le radici del terroir culturale delle Langhe», spiega Bianca Roagna proseguendo con la lettura del libro: “Stasera senza volerlo ho sentito mia madre pregare. Per paura che io fossi in casa e la sentissi, è andata fuori e s’è inginocchiata vicino al primo palo della vigna”. Quest’ultima immagine fa parte della scena finale: «Qui il vigneto diventa una cattedrale: il luogo in cui Dio ascolta perché si tratta della tua terra, il luogo a cui appartieni e che ti appartiene. La malora è il racconto di una difficile mobilità sociale e se le Langhe oggi hanno raggiunto il successo, è anche grazie a storie come quella di Agostino», conclude la direttrice del centro studi.

Foto di apertura: un’immagine degli anni Trenta del secolo scorso del conferimento delle uve in piazza Ferrero ad Alba (Cuneo) © E. Necade

Foto del servizio: Archivio Centro Studi Beppe Fenoglio Alba, onlus


(Fonte: civiltà del bere)

venerdì 23 aprile 2021

IL 25 APRILE DI LIETI CALICI. VINI RESISTENTI DELLA COOP. LA VIRANDA DI CLAUDIO SOLITO: IL LIBERTARIO ROSSO

 




Libertario Rosso. Vino dedicato a Giovanni "Primo" Rocca e ad Omero "Fulmine" Saracco. Comandante e Vice Comandante Brigata d'assalto Garibaldi "Stella Rossa"

Era un sogno di un gruppo di contadini e disoccupati. È diventata una realtà viticola affermata. Dopo quasi trent’anni, le sei aziende agricole che dal 1980 hanno dato vita alla Cooperativa La Viranda sono più battagliere che mai. E i loro vini sono un manifesto della ribellione che si riverbera nel territorio astigiano dal 1943 ad oggi.

Vino rosso, come i suoi ispiratori. Non c’è presentazione migliore della storia della Cooperativa La Viranda se non quella del suo vino Libertario Rosso. Un Piemonte Brachetto DOC, vino semplice, schietto, come le figure a cui è dedicato. Giovanni “Primo” Rocca e Omero “Fulmine” Saracco, comandante e vicecomandante prima della Brigata partigiana d’assalto “Stella Rossa”, poi della IX Divisione Garibaldi “Alarico Imerito” di Asti. Partigiani intransigenti e impetuosi, ma con un senso della condivisione con la popolazione civile fuori dal comune. Uomini che, nel loro territorio, contribuirono alla liberazione del Paese dall’occupazione nazi-fascista. Ma che nel dopoguerra videro sfumare lo spirito di unità e le speranze di giustizia, sovrastate dagli interessi politici dei partiti ricostituiti. Comunisti invisi dallo stesso PCI: troppo legati agli ideali, troppo fedeli alla propria gente. Rose canine, come l’aroma di un vino che li ricorda.

La Resistenza nascosta. 20 agosto 1946, un manipolo di ex-partigiani si ribella tra le campagne di Asti e Cuneo. È la “rivolta di Santa Libera”, l’ultimo atto di Resistenza di chi aveva combattuto contro l’invasore. L’allontanamento del capitano Lavagnino, ex-comandante garibaldino, dalla polizia astigiana fa presagire una volontà di allontanare gli elementi più scomodi della sinistra socialista-comunista dalle posizioni di potere. Per riabilitare anche chi aveva subito l’epurazione dopo la conclusione del conflitto: fascisti e repubblichini, gerarchi e gregari. Uomini d’ordine che con l’amnistia potevano tornare utili nel gioco della Guerra Fredda. La mobilitazione astigiana preoccupa anche i vertici del PCI, poco incline ad assecondare la soluzione armata. Così, dopo una settimana di tensioni in tutto il Nord, le speranze dei rivoltosi non sostenute da nessuna forza organizzata si spengono come fiammiferi nel vento. Che ritornano ad indossare gli abiti civili. Che lasciano la storia dell’Italia seguire il suo corso.

Una Resistenza agricola. È dal 2001 che la Cooperativa La Viranda produce vino che ricorda l’attaccamento al territorio e la condivisione dei beni tipiche dei partigiani. Rispetto dei tempi di produzione e dei cicli naturali, controllo dei prodotti e delle sementi. Rigore nell’utilizzo di macchinari e delle normative di produzione. Controllo scrupoloso di tutte le fasi della trasformazione del mosto in vino. Rispetto e dignità del lavoro degli uomini. Rapporto qualità-prezzo che renda il vino un piacere accessibili a tutti. Tutto ciò che ispira equità e rigore, qui c’è.

Perseveranza, resilienza, resistenza. L’eco di una ribellione che viene da lontano, da una sinistra che lotta, condivide e rifiuta un ordine costituito non all’altezza dei propri valori. Una rivoluzione che si esprime dal basso, nelle piazze, sui monti, sulle tavole delle famiglie. Vini rossi, come il ricordo di un passato partigiano che non è ancora tramontato

10,90

Produttore: La Viranda

Territorio: Monferrato  /  Piemonte

Vitigno: Brachetto Clone Migliardi

Morbido,amabile, leggermente tannico, aromatico, sentori di rosa canina, marasca. Ottenuto con lieviti autoctoni e senza l’uso di prodotti di sintesi.

Alc. 14%

«Si doveva combattere anche per procurarsi da mangiare»: i partigiani e il cibo

 


Quanti scelgono di andare sui monti a condurre la guerra partigiana e quanti rimangono nelle città a portare avanti la lotta armata nella clandestinità devono innanzitutto far fronte alle loro necessità alimentari, un problema che presenta una molteplicità di contesti e di condizioni, ovviamente dipendenti dai tempi e dai luoghi in cui operano le brigate partigiane.

Nei primi mesi la ricerca del nutrimento quotidiano si pone come pura ed elementare questione di sopravvivenza. Gli uomini si alimentano di qualsiasi cibo possano trovare: di quanto raccolgono nei campi e nei boschi (funghi, castagne, frutti selvatici e verdure); dell’offerta dei contadini, generosi di latte e polenta; di viveri asportati dai magazzini dell’ormai disciolto regio esercito.

In tempi successivi il problema del cibo verrà risolto nei modi più vari: potrà essere acquistato dai contadini; requisito da ricchi possidenti e da quei gerarchi fascisti che ne hanno imboscato grandi quantità; prelevato dietro rilascio di buoni voluti dal Comitato di liberazione nazionale per «evitare che la popolazione unisca in un comune giudizio le requisizioni compiute, per assoluta necessità, da nuclei di Volontari della liberta, alle vere e proprie rapine effettuate da volgari delinquenti che trovano comodo esplicare la loro losca attività sotto le mentite spoglie di patrioti» (Comando militare unico Emilia-Romagna, Recuperi e requisizioni). Qualche volta il cibo sarà pure sottratto anche se, specialmente dopo la primavera del 1944, la disciplina partigiana risulterà molto rigorosa nei confronti di chi ruba.

Nell’estate del 1944, poi, i partigiani si procureranno cibo, molto spesso distribuendolo poi alla popolazione, assaltando le strutture dei consorzi agrari, in cui sono conservati gli ammassi, o i depositi in cui sono immagazzinate le derrate alimentari razziate dai nazisti.

Nella memorialistica partigiana è sempre presente il riferimento alla precarietà e alla scarsità del cibo. Tra le tante voci che le confermano, quella inedita di Nello, partigiano impegnato in Val Vajont che, il 24 marzo 1944, scrive nel suo diario: «Non c’è nulla da mangiare al di fuori del lardo che viene preparato in tutti i modi. Crudo, bollito, abbrustolito. Molti stanno male, vomito, diarrea. Alla sera un po’ di polenta e un bicchiere di vino» (Diario di Nello, in archivio dell'Istituto per la storia e le memorie del '900 Parri Emilia-Romagna).

Si mangia tutto ciò che è commestibile, sperimentando nuovi alimenti - che spesso procurano fastidiose conseguenze - e nuovi modi di trattarli; si mangia molto pane e molta polenta, con quotidiana e disgustosa monotonia. Quando si trovano uova si fa anche la pasta. Ciò che permette di sopperire alla mancanza di una alimentazione accettabile è la farina di castagne: senza quella la vita dei partigiani sarebbe molto più dura. Il formaggio costituisce il “companatico” per eccellenza perché di lunga conservazione e facilmente trasportabile, due fattori importanti in una guerra che impone spostamenti rapidi e continui. Il problema dell’alimentazione resterà grave per tutta la guerra (Testimonianza di Aurelio Ricciardelli, partigiano della compagnia Pirì inquadrata nella 36a brigata Garibaldi, operante nelle zone del ravennate).

Approfondimenti bibliografici:

Lorena Carrara, Elisabetta Salvini, Partigiani a tavola. Storie di cibo e ricette di libertà, Bologna, Fausto Lupetti editore, 2015.

Guido Laghi, Appunti sul problema sanitario presso le formazioni partigiane reggiane, in «Ricerche storiche. Rivista dell’istituto per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in provincia di Reggo Emilia», a. III, n. 9, dicembre 1969, pp. 15-32.

Aurelio Ricciardelli, Problemi di lotta partigiana, testimonianza in Centro di documentazione sulla guerra di Liberazione di Casola Valsenio (www.Cdglcv.blogspot.it).

Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1979.

Giorgio Bocca, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni Giustizia e libertà del cuneese, Milano, Feltrinelli, 2004.

martedì 2 febbraio 2021

Auguri, Veronelli!

 



Luigi Veronelli nacque a Milano, nel quartiere dell’Isola, il 2 febbraio 1926.

Il grande critico gastronomico ed enologico non amava le commemorazioni e i ricordi altisonanti. E nemmeno a noi piacciono.
Oggi, a 94 anni esatti dalla sua nascita, gli rendiamo omaggio attraverso una singolare lettura del suo innovativo pensiero. 

Luigi Veronelli: una biografia impossibile?

Una storia di humanitas
di Marco Magnoli*

“Vivere è comunicare; comunicare è vivere”: Luigi Veronelli si mantenne sempre fedele a tale massima e il biografo non può che prenderne atto cercando di esporne la vicenda attraverso i messaggi che ci ha proposto. Poco importa che, spesso, Veronelli si sia divertito a colorire, trasfigurare, probabilmente persino ad inventare i fatti della sua vita, teatro delle idee e del pensiero.

Con quale criterio ordinare tutte le “insegne” che di volta in volta Veronelli ha issato e indossato? 

Fu straordinario degustatore, fine esegeta di vini e cibi. Fu editore, scrittore e giornalista. Fu anche anarchico, in modo originale e con soggettivi distinguo. Fu sicuramente “politico”, ribelle e sovversivo, se così si può dire di un uomo che non ha avuto timore di condurre aspre battaglie per le sue idee, scontrandosi in più di un caso con le autorità e pagandone lo scotto in prima persona. 

Ma incasellarlo in tanti distinti capitoli annichilirebbe una complessità che solo considerata nel suo intreccio assume la giusta valenza.

Noi crediamo che la figura di Luigi Veronelli possa essere compresa nella sua poliedricità, nella sua variegata “sovrabbondanza e – inevitabili – nelle sue contraddizioni, solo considerando l’uomo per quello che fondamentalmente egli fu: un intellettuale che volle significare nella sua vita i valori ispiratigli da una vasta e sofisticata cultura.

Luigi Veronelli nacque a Milano il 2 febbraio 1926, figlio di un industriale chimico. Vivace e attirato da molteplici interessi, anche la vocazione naturale per i vini e i cibi si sarebbe manifestata già nella più tenera età. 

Raccontava, a tal proposito, del suo primo contatto con il vino, offertogli dal padre il giorno della Prima Comunione con la raccomandazione di “berlo con cura: c’è dentro la fatica di chi coltiva la vigna”. 

Non sfuggirà l’intenzione di caricare l’aneddoto di un significato quasi profetico. 

Si formò sui banchi del Liceo Classico Parini distinguendosi in particolare nelle materie umanistiche. Pare che abbia sostenuto l’esame di maturità parlando esclusivamente in greco antico, fatto che sarebbe un buon indizio dell’indole istrionica e ambiziosa che ne caratterizzò indubbiamente la personalità. 

Al termine del Liceo inizia una stagione di incontri importanti, che ne segneranno il pensiero e le future attività. 

Quale regalo per gli ottimi risultati scolastici Veronelli chiese al padre niente meno che un soggiorno all’Hotel Savoy di Londra, dove sfogare la passione per la gastronomia. Vuole la leggenda che la prima sera Luigi – spavaldo e spaccone – abbia ordinato “il piatto più caro della Casa”, per vedersi servite “solo due uova al burro!”. Piccato, ne chiese conto al maître: “Due uova al burro, ma perfette” – fu la risposta – “perché dentro ci sono la sapienza, l’esperienza e la ricerca della perfezione dello chef Cesare Balestreri”. 

Una lezione di vita. Quel maître era Luigi Carnacina, l’uomo verso il quale in seguito Veronelli si riconobbe debitore “quanto a cucina, di tutto, ma proprio tutto ciò che io so”. Si ritroveranno una decina d’anni più tardi, Veronelli impegnato nella sua prima avventura come editore e Carnacina ansioso di mettere a disposizione la sua enorme esperienza; ne nasceranno volumi rimasti a lungo punto di riferimento imprescindibile per la moderna cucina italiana.

Gli studi umanistici

La predilezione per gli studi umanistici fu occasione di un altro basilare incontro. Veronelli frequentò, infatti, l’Università Statale di Milano, dove fu allievo e, poi, assistente di Giovanni Emanuele Bariè, titolare di filosofia teoretica e fondatore del “neotrascendentalismo”, dalla cui figura e pensiero fu a tal punto influenzato da meditare la possibilità di una carriera accademica.

Terzo fondamentale incontro di quegli anni fu, infine, quello con Benedetto Croce, alle cui lezioni di filosofia politica assistette nel 1946. 

“Se il genere umano ha cominciato la sua storia con l’anarchia della vita selvaggia, e se per negazione di questa è passato nel corso dei secoli attraverso le varie forme dello Stato [… ] deve mettere capo a un ritorno all’inizio (negazione della negazione), all’Anarchia, ma resa pura e armonica e razionale dopo la secolare e millenaria maturazione dell’esperienza statale”. 

A queste parole del Croce, Veronelli attribuì la sua scelta anarchica.

Alla morte del padre Veronelli cedette la sua quota dell’azienda di famiglia e con il ricavato, nel 1956, finalizzò l’impegno per la politica e la cultura nella prima Veronelli Editore

Il catalogo è significativo dei suoi eclettici interessi, con una netta impronta libertaria e libertina: pubblica le riviste Il pensiero, a tema filosofico, diretta da Giovanni Emanuele Bariè, I problemi del socialismo, diretta da Lelio Basso, socialista antistalinista, e Il Gastronomo; pubblica, inoltre, collane di testi filosofici, anarchici, di sport, letteratura, gastronomia; tra gli altri, diede alle stampe «Storielle, racconti e raccontini» del Marchese De Sade, opera che gli costa la condanna a tre mesi di carcere per oscenità e il pubblico rogo dei volumi, avvenuto – ultimo in Italia – nel cortile della Questura di Varese nel 1961.

Le ripercussioni di tale episodio, acutizzate da pressanti problemi finanziari («Stampavo duemila copie e ne vendevo sessanta»; «Mi ero mangiato tutti i soldi»…), portarono nei primi anni Sessanta alla conclusione dell’impresa editoriale, mentre fin dal 1956 il suicidio di Bariè aveva segnato il distacco dal mondo accademico. 

Veronelli continuò, tuttavia, la sua attività di autore con attenzione sempre più esclusiva per i temi dell’enologia e della gastronomia, una predilezione che si definì grazie alla decisiva influenza del Carnacina.

Con «I vini d’Italia» del 1961 iniziò l’assidua frequentazione con le catalogazioni, che porterà infine alla redazione delle Guide per le quali è ai più noto. Volume importantissimo, poiché è il primo dopo oltre quattro secoli, ovvero dai tempi di Andrea Bacci, che tenti un inventario del patrimonio vitivinicolo italiano, presentandolo con l’impostazione colta che diverrà consuetudine veronelliana. 

È un nuovo approccio, che riconosce il valore culturale di vino e cibo e che continuerà con i testi scritti negli anni successivi: «Alla ricerca dei cibi perduti», dove già il titolo, di chiara allusione proustiana, invita a ritrovare il senso di una memoria materiale individuale e collettiva; la serie delle «Guide all’Italia piacevole», per le quali – “giornalista itinerante” – “camminò” le terre d’Italia quasi ad appropriarsene fisicamente (lo farà per il resto della sua vita); «Il vino giusto»; i grandi Cataloghi Bolaffi, dal 1968 al 1980. Sono solo alcuni tra i titoli più significativi di un’appassionata opera di valorizzazione del patrimonio gastronomico, italiano in particolare.

Nel frattempo – dal 1962 – era iniziata l’attività giornalistica propriamente detta. Italo Pietra, direttore de Il Giorno (all’epoca uno dei quotidiani più innovativi), gli affidò le pagine dedicate ai vini e ai cibi: «Come editore ero fallito, nascevo come giornalista». 

Una collaborazione durata fino al 1983, a cui negli anni si affiancarono numerose quelle con altre testate – Panorama, L’EspressoCorriere della Sera e via “millanta che tutta notte canta”, come avrebbe scritto Veronelli – per le quali curò rubriche che resero familiari ai lettori idee oggi considerate incontestabili.

La parentesi televisiva

Negli anni Settanta si aprì il rapporto con l’amata/odiata «Raitivvù». «Colazione allo studio 7», poi divenuta «A Tavola alle 7», in onda dal 1971 al 1977, fu trasmissione di grande successo e, soprattutto nel periodo in cui fu affiancato da Ave Ninchi, diede a Veronelli un’eccezionale notorietà tra il pubblico più vasto. 

Pur impegnato con il “mezzo di comunicazione di massa” per antonomasia, Veronelli non abbandonò il suo stile aristocratico; lo aiutò la materna indulgenza della Ninchi, accanto alla quale poté indossare i panni del Maestro puntiglioso in una sorta di gioco di ruolo. Se, tuttavia, stemperò un poco il linguaggio raffinato che caratterizzava i suoi scritti per adattarlo ai toni più rassicuranti della televisione, non rinunciò mai alla provocazione intellettuale, evocando con una disarmante chiarezza espositiva le arcane allusioni che si celano dietro al buon bere e mangiare.

Altra importante esperienza televisiva fu il «Viaggio sentimentale nell’Italia dei vini», realizzato tra 1979 e il 1980 per il lancio della terza rete Rai. Veronelli concepì la trasmissione come un romanzo nel quale i fatti e gli eventi fossero solo la cornice entro cui si muovevano i personaggi con la loro umanità, un quadro dal quale emergeva, centrale, la figura del contadino,

«Un viaggio vero, reale, attraverso i vignaioli, così da coglierli nei loro atti e da fotografarne in un incontro-scontro diretto, dal vivo, le più urgenti necessità».

A tale mirabile affresco seguirono la partecipazione a «La Meridiana», 1982,  e «Il Bel Mangiare», fine anni Ottanta. Poi qualche abboccamento finito in nulla, con forte rammarico di Veronelli che diede la colpa di questa «freddezza» alla sua aperta dichiarazione di anarchia, mal vista e mal digerita dalle dirigenze Rai. Può darsi che il suo orientamento politico – unito al corredo provocatorio – abbia giocato un ruolo non secondario nel tenerlo lontano dagli schermi, ma con ogni probabilità molto peso ebbe la deriva generalista della televisione con il corollario di commistioni pubblicitarie. Un modello con il quale certamente Veronelli faticava a trovare un compromesso.

Il decalogo anarchico

Nell’eclettismo veronelliano si andava delineando una coerenza di valori che venne palesandosi nel corso della sua opera, scaturita da una peculiare formazione intellettuale e precisatasi nei diversi fronti di azione. Cultura classica e umanistica, con chiare propensioni politiche per il socialismo critico e, quindi, per l’anarchismo: forse è utile partire da qui per dare un senso al suo agire metamorfico.

Individualista per formazione, ritenne di trovare nell’anarchia i principi fondamentali su cui basare la propria condotta di vita declinandoli in un personale decalogo: 

«Assunzione di responsabilità (di ogni gesto sia verso sé sia verso gli altri), rifiuto della violenza, rispetto dell’altro (libero io se lui libero), disobbedienza (è iniquo obbedire a leggi inique), massima espressione dell’ordine, sono i principi cui ho cercato di attenermi in ogni mia azione ed iniziativa, ben conscio che la libertà altrui è l’unica possibile garanzia della propria».

Veronelli riversò in toto i suoi ideali nella passione per i cibi e i vini, che non considerò prodotti edonistici fini a se stessi, ma simboli «viventi» di un sistema di valori ben definito. Confesserà alla fine della sua vita: «In tanti anni di lavoro giornalistico ho dovuto convincermi che, contro il fato […] continuavo a far filosofia». «Quando […] decisi di occuparmi di cose […] il mio impegno avrebbe dovuto essere il comando della ragione che può riguardare un’azione buona in sé, incondizionatamente buona, quindi oggettivamente necessaria. Imperativo categorico. […] Ora so. La cosa è dio, e l’uomo che si dedica alla qualità della vita materiale nel rispetto dell’altro è un giusto».

Quasi obbligato il rapporto privilegiato col vino: «Il vino, dopo l’uomo, è il personaggio più capace di raccontare storie, di lanciare messaggi vasti e antichi, di presentarsi con i suoi documenti d’identità completi. Io, quando assaggio un vino, sento tutto quello che è successo in quella terra dove è nato, tra quella gente che l’ha coltivato, in quelle mani che l’hanno toccato».

Il vino è terra ed è uomo, esprime diversità, distinzioni e, dunque, individualità. Affiora l’importante connotazione umanistica del pensiero veronelliano; il riferimento definitivo è sempre l’uomo, il privilegio di interpretare il mondo assumendosi la responsabilità delle proprie idee con tutta la dirompenza del proprio spessore intellettuale. 

La Terra è vista come madre feconda, unica capace di generare ricchezza materiale, ma anche valori, significati, e identità. 

La figura del contadino ne esce quasi sacralizzata: «Faticante sinonimo di contadino. La fatica è la sua misura quotidiana. Pure resiste, non s’arrende, non ha tradito. Il contadino è splendido individuo. Anche i suoi gesti, sia pure ripetuti dall’esperienza dei secoli, sono sempre individuali, nuovi e senza infingimenti». Da qui l’originale concezione di contadinità che gli procurò non poche critiche: il contadino non è necessariamente il piccolo coltivatore che si prende fisicamente cura del suo piccolo podere; certo, questo è il prediletto, anche per la poesia dei gesti, ma contadino può essere un grande proprietario terriero: la discriminante sta nel rispetto per la terra e nel saper cogliere con sensibilità le peculiarità che infonde nei suoi frutti. 

«Meglio il peggior vino del contadino del miglior vino d’industria»

Uno dei suoi motti più noti, sottintende, in fondo, la consueta visione umanistica: «Le aziende agricole industriali, quelle che hanno puntato anziché sui contadini, sui mezzi, non hanno, nei fatti, ragione di esistere. Il mezzo, qualsiasi mezzo, che non abbia l’assistenza fisica e intellettuale del singolo uomo, contadino, esperto, porta a degrado, se non a un degrado, ad una omologazione in qualche modo dannosa. […] Il contadino e l’artigiano mettono certo in conto il profitto, […] ma ci aggiungono sempre, per ragioni storiche e culturali, […] la volontà del ben eseguito e del coinvolgimento appunto sentimentale.»

È chiaro in Veronelli il valore, anche economico, della diversità. I suoi lavori di indagine e ricerca, le sue battaglie per la valorizzazione dei vitigni autoctoni, per la modifica delle leggi sulle denominazione d’origine, le nette prese di posizione a favore del concetto di cru rispondono tutti alla precisa cognizione che l’autentica ricchezza italiana stia nell’estrema variabilità – originata dalla geografia e dalla storia – delle sue terre e, ovvia conseguenza, degli uomini: 

«L’Italia ha il privilegio di terre, climi, storia e uomini d’ ineguagliabile possibilità». In primis possibilità di distinzione, da cui il convincimento che «l’agricoltura e il turismo sono le armi migliori per lo sviluppo e l’affermazione della nostra Italia».

Un nuovo linguaggio

Veronelli non parla alla massa, ma sempre all’individuo. Ne consegue un linguaggio ricercato e raffinato quanto innovativo, ricco di arcaismi e di neologismi, plasmato attraverso una disamina lessicale certosina e una pirotecnica inventiva sintattica. 

Si rende conto di come sia necessario, per porre su nuove basi il discorso qualitativo su vini e cibi, inventarsi un nuovo linguaggio all’altezza del messaggio, ma anche in grado di discernere chi tale messaggio è pronto a comprendere. 

La sua scrittura con il tempo si asciuga, mira all’essenzialità, alla parola pura, esatta, il che certo non semplifica, anzi, rende ancor più complesso e stimolante il racconto, aristocratico ed elitario.

Conoscenza e agilità intellettuale erano sollecitate anche dagli incontri, dai continui scambi personali ed epistolari con uomini e donne, queste ultime sempre interlocutrici privilegiate: «amiche mie paritarie». 

Coltivò rapporti amichevoli con molti, più duri e tesi con tanti, ma sempre dialettici, costruttivi. Spesso ne fu teatro la casa di via Sudorno 44, «alta su Bergamo Alta», dove si trasferì nel 1970. 

In quella casa si sono definite strategie e deliberate non poche decisioni di capitale importanza per l’agricoltura italiana.

Veronelli si definiva «giornalista itinerante»; gli infiniti viaggi per le terre italiane e del mondo sono stati fonte di riflessione e ispirazione continue. Basti ricordare quello in Borgogna, anni Cinquanta, quando incontrò il vignaiolo René Engel che condivise con lui  un’ illuminante constatazione: «Noi francesi abbiamo uve d’argento e facciamo vini d’oro, voi italiani avete uve d’oro e fate vini d’argento». Engel lo galvanizzò nella battaglia per l’eccellenza della vitivinicoltura d’Italia. 

O, ancora, il viaggio in California, negli anni Ottanta, quando intuì come la sorprendente bontà di quei vini, privi di storia e tradizione, derivasse da un oculato uso della barrique.

È quasi impossibile ricostruire puntualmente l’impatto che l’influenza di Veronelli ebbe sull’opera di ciascun vignaiolo o ristoratore entrato in contatto con lui: di certo il beneficio, dirompente, che ne derivò per l’agricoltura, l’enologia e la gastronomia italiane fu immenso.

La facilità nei rapporti umani fu una caratteristica saliente della personalità di Veronelli: una straordinaria umanità, fatta di educato rispetto, disponibilità, pacatezza e attenzione, il che non significava certo accondiscendenza, poiché egli viveva della forza delle sue convinzioni. 

A questo tratto caratteriale, oltre che alla suggestione delle idee, si devono il formidabile ascendente che esercitò sulle persone e la capacità di coinvolgerle nei propri progetti. 

Tale seduzione ebbe peso anche nella nascita, 1986, del Seminario Permanente Luigi Veronelli, «associazione senza scopi di lucro, voluta e fondata da alcuni, illuminati, vignaioli col puntuale proposito di affrontare i problemi relativi alla qualità degli alimenti, di approfondirli e di risolverli». 

«Nei trent’anni di lavoro cartaceo, ho usato solo – in opposizione ai potenti – lo strumento della mia libertà […] ho scritto sempre per la qualità della vita, con particolari osservanze ai vini e ai cibi, da chierico solitario e polemico. Conveniva, era giusto che il Seminario Permanente portasse il mio nome».

Si noti, nel testo citato, il riferimento a «la qualità della vita»; umanista libertario e libertino, Gino non poteva che predicare il pieno godimento dell’esistenza: «festeggiare la vita», come amava dire, «In nulla [può] essere rimproverato il desiderio di godere pienamente e perfettamente dei doni che ci sono offerti dalla natura».

Tale disposizione si incarnò ne L’Etichetta, fondata da Veronelli nel 1983 e da lui diretta fino al 1994, una delle riviste più raffinate ed esclusive – per grafica e contenuti – che la storia dell’editoria italiana abbia conosciuto. Vi collaborarono grandi firme e grandi fotografi che si occuparono, a più livelli narrativi, di ogni oggetto e risvolto della vita materiale, esaltata quale perfezionamento dell’esistenza intellettuale: «L’Etichetta nasce col proposito di accompagnare e sottolineare il crescere dell’esigenza qualitativa. L’uomo […] prende coscienza di sé e si accultura: è proprio questa crescita culturale che lo rende più esigente nei confronti di ogni aspetto del vivere». L’esperienza de L’Etichetta terminò per problemi finanziari e probabilmente anche questa vicenda contribuì nel far maturare in Veronelli l’urgenza di divenire nuovamente editore.

Nel 1989 nacque ufficialmente la seconda Veronelli Editore, «Col puntuale obiettivo di approfondire la classificazione dell’immenso patrimonio gastronomico nazionale». Lo fece pubblicando una rivista, Ex Vinis (poi divenuto Veronelli EV), che raccontò degustazioni e storie di cibi e vini, ma diede anche voce alle battaglie dell’ultimo Veronelli. 

Non mancarono rubriche più intime, nelle quali egli si sbizzarrì su filosofia, musica, letteratura, arte, politica, prendendo spunto dalla sua vita e cultura. 

La casa editrice venne fondata anche per la difficoltà di trovare un editore per la Guida Ristoranti, ma Veronelli ne farà l’ennesima palestra di libertà, allargando presto il catalogo ad altre guide (fondamentale quella dedicata ai vini, erede dei grandi Cataloghi Bolaffi, che fu la Guida del suo privilegio) e ad altre collane, affrancato da censure e vincoli che non fossero quelli da lui stesso accettati e libero di continuare nel suo originale ed elitario approccio alle cose minime e alla cultura materiale: 

«Le guide d’oggidì – fuor che le mie – hanno il torto gravissimo di aver tenuto fuori pagina la cultura e la poesia». 

Sulle pagine di Veronelli EV e su quelle delle differenti pubblicazioni da lui editate, hanno avuto possibilità di esprimersi numerose firme divenute di primo piano nel panorama della gastronomia, in qualche caso allontanatesi polemicamente da Veronelli, poiché egli è stato maestro e padre di molti, ma certo con i suoi collaboratori fu estremamente diretto, pronto all’elogio così come all’aspra critica quando non condivideva giudizi o posizioni.

Veronelli l’anarchenologo

Entriamo, così, nell’ultimo periodo della sua vita, per certi versi il più politico. In realtà, Veronelli ribelle lo è sempre stato, risvolto sostanziale del suo essere anarchico. Le dure prese di posizione, contro la legislazione vinicola e le disattenzioni dei politici nei confronti dell’agricoltura, dalle pagine di giornali e riviste si erano spesso trasferite in atti concreti. 

Il più eclatante il 19 settembre 1980, quando ad Asti si mise al fianco dei vignaioli piemontesi mobilitati contro l’insensibilità del mondo politico. La giornata terminò con l’occupazione della stazione e delle strade di accesso alla città, in seguito alla quale Veronelli venne denunciato e quindi condannato per blocco stradale aggravato.

Negli anni Novanta Veronelli venne in contatto con gruppi appartenenti all’eterogenea galassia dei movimenti antagonisti; li chiamava i «giovani estremi». In alcuni di loro trovò interlocutori che gli consentirono di operare una sintesi efficace tra le sue idee socio-politiche e l’attenzione per la Terra, raccogliendo le intuizioni teoriche disseminate tra i suoi scritti e fino ad allora mai pienamente motivate, approfondite, né tantomeno riunite in un metodo o teoria. Sono gli anni delle ultime, veementi lotte per le De.Co. (Denominazioni Comunali), il Prezzo Sorgente, l’olio d’oliva. Quest’ultima ripercorre il virtuoso cammino già affrontato nel ridare dignità e qualità al vino; una battaglia culturale che diviene minuziosamente programmatica nel disciplinare dell’«Olio secondo Veronelli». Come per il vino, però, ancora una volta la qualità sta nel metodo ma anche nella consapevolezza: 

«Il gusto individuale è tutto se si hanno parametri certi di riferimento, ma non è nulla se non sappiamo dove appoggiarci».

Il rapporto con i giovani dei movimenti gli regalò nuovi stimoli e una rinnovata visibilità. Colse, dei giovani, la freschezza: «prediligono il nuovo e il diverso […] si sono resi conto che la tradizione e la cultura sono non un piedistallo, bensì un trampolino di lancio. […] coraggiosi, propositivi, dialettici, attenti ed esigenti». 

Veronelli diviene l’anarchenologo: l’affinità con le tematiche espresse dai movimenti anti o alter-globalisti, la coscienza di come la terra sia il teatro dove da sempre si giocano la liberazione e il dominio sugli esseri umani, la denuncia del tentativo di omologazione culturale e sensoriale dei prodotti operato dalla grande industria e dalle multinazionali lo spinsero a intensi scambi, da cui nel 2003 scaturì il «progetto connettivo» t/Terra e libertà/Critical wine.

Oggi l’autentica eredità veronelliana è rivendicata da molti. 

Pare non si comprenda come essa sia, in realtà, un bene comune, fonte di innumerevoli rivoli che attendono solo di essere ripresi per un nuovo e innovativo utilizzo: “La cultura per definizione è sempre impegnata e nel domani”; è un movimento in divenire, mai circolare.

Luigi Veronelli morì a Bergamo il 29 novembre 2004, ben prima dei 103 anni che si era posto come traguardo. 

Della vita ci ha insegnato, più del vero, il saporito.


( fonte: http://www.seminarioveronelli.com/2020/auguri-veronelli/ -

http://www.veronelli.com/: Gian Artura Rota)