Un agricoltore siciliano è stato condannato per aver ripiantato semi brevettati da una multinazionale svizzera. Con una sentenza senza precedenti arriva il primo provvisorio risultato di una crociata decennale delle lobby europee. L’obiettivo è farsi pagare ogni volta che qualcuno ripianta un seme coperto da copyright
Piantare un pomodoro può essere reato. Il 20 novembre 2019 il Tribunale di Ragusa ha scritto una sentenza unica nel suo genere. Un produttore del ragusano avrebbe piantato pomodori protetti da copyright di Syngenta. È stato condannato a un anno di carcere e 15 mila euro di multa per “fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale”.
In attesa dell’appello, l’imputato dovrebbe risarcire 70mila euro. La quota è da dividere appunto tra la multinazionale svizzera e AIB, Anti-Infringement Bureau for Intellectual Property Rights on Plant Material. Si tratta di un’associazione che raggruppa i maggiori produttori di sementi al mondo e alcuni giganti della chimica. Tra i membri, ci sono aziende come Basf e Bayer.
La sede si trova nei palazzi di vetro e cemento di Rue du Luxembourg, a Bruxelles. Un luogo molto distante dalle serre bruciate dal sole del ragusano. La condanna in primo grado riguarda un uomo di 72 anni, titolare di un’impresa che controlla numerose serre del vittoriese. Un piccolo impero non privo di contraddizioni ma che reclama ad alta voce la sua innocenza. La denuncia è invece partita dalla capitale belga, in particolare dall’amministratore delegato di Aib, Casper Van Kempen. Si tratta di un manager olandese con una lunga carriera alle spalle. Dopo gli inizi con la vendita all’ingrosso di farmaci in Burkina Faso, dal 2006 si dedica a combattere la “pirateria” dei semi.
Aib nasce nel 2010 e da allora promuove leggi sul brevetto dei semi e la loro applicazione, soprattutto in sede penale. Finora i risultati appaiono scadenti e hanno provocato reazioni impaurite contro “l’Europa che vuole impedirci di coltivare gli orti”. Il punto di vista della lobby di Bruxelles è specularmente opposto. La pirateria significa “evasione fiscale e concorrenza sleale”. Secondo alcune stime presentate in un congresso, in Italia la “propagazione vegetale” illegale riguarda il 20% delle piante. Nel caso del pomodoro ciliegio, arriverebbe al 40%. Ovviamente la Sicilia è la zona più interessata. Ma anche la Lombardia, con le coltivazioni di lattuga, è considerata un’area a rischio.
Ripagare gli sforzi
Aib ha denunciato numerose illegalità dal 2013 al 2016, specialmente tra Campania e Sicilia. Ma soltanto nel 2019 ha ottenuto una prima condanna, appunto quella di Ragusa. La sentenza crea un precedente di rilievo nel settore delle sementi, perché dà rilevanza penale alle diffuse tecniche di riproduzione con talea o “stub” delle piante coperte da brevetto. Secondo le aziende, a ogni seme acquistato deve corrispondere una sola pianta.
Van Kampen ha commentato la sentenza, ha espresso soddisfazione, ha spiegato che “le aziende produttrici di ortaggi investono in media tra il 20 e il 25 per cento delle vendite nette ogni anno in ricerca e sviluppo per produrre varietà migliorate”. Quindi devono ricevere compensi per la loro opera di innovazione “a vantaggio di coltivatori, rivenditori e consumatori”. Chi non paga questi compensi si macchierebbe di un reato. “Ma chi investe sui semi gode dello sfruttamento di ricchezze conservate per millenni da generazioni di contadini”, risponde Slow Food.
Le multinazionali chiedono denaro per un seme che hanno brevettato, ma che è figlio anche dell’opera di generazioni di contadini
Fino agli anni Settanta, in Europa, il lavoro sugli ibridi era gestito prevalentemente dalla ricerca pubblica. Per arrivare a una nuova varietà di specie arborea da frutto, esistevano programmi che duravano anche 20 anni. Venuti meno i finanziamenti pubblici, questa attività è passata ai privati, che anticipano il costo della selezione e poi recuperano con le royalties.
Ma come avviene la caccia ai “pirati”? Solitamente AIB confronta i semi venduti e le quantità di prodotto immesse sul mercato. Se non combaciano, si avviano ricerche nelle zone di produzione. Il passaggio successivo è la denuncia ai danni dei maggiori produttori locali, ai quali a questo punto spetta l’onere della prova: devono produrre le fatture dei semi brevettati.
È appunto quello che è accaduto a Vittoria. Nel corso delle indagini sono state effettuate analisi del DNA sulle coltivazioni, che hanno confermato la presenza nelle serre di una varietà protetta da brevetto.
L’avvocato siciliano mi chiede sconsolato: “Ma come si fa a distinguere la varietà di pomodoro di una piantina di pochi centimetri? A stento si può capire se è peperone o melanzana”. Secondo la difesa, infatti, era impossibile riconoscere la provenienza delle piantine. Anche perché i passaggi iniziali della filiera sono tre. I produttori di semi, il vivaio, la serra. La Guardia di Finanza è intervenuta solo nel terzo livello. La sentenza dunque appare figlia del desiderio di arrivare a una condanna dopo un decennio di tentativi. Si deciderà in appello.
La battaglia dei semi
Pakyta è l’erede di Snack, una tipologia di pomodoro brevettata da Syngenta. “Grappolo regolare, elegante a spina di pesce, frutti di ottimo colore rosso, polpa croccante e saporita”, si legge nel depliant destinato agli acquirenti.
La pianta è anche resistente al virus dell’accartocciamento. In molti, tra cui Slow Food, criticano l’intreccio perverso tra produzione di semi e fertilizzanti, pesticidi e diserbanti, che fa capo alle stesse aziende. “Un caso molto noto è, ad esempio, quello dell’erbicida “Roundup”, prodotto da Monsanto, e dei semi “Roundup Ready”, costruiti per la resistenza a questo prodotto”.
Nonostante tutto, oggi gli agricoltori acquistano prevalentemente semi di questo tipo. Perché sono più resistenti alle malattie e soprattutto perché i consumatori sono abituati a trovare al supermercato prodotti standardizzati. Proporre sul bancone un pomodoro di un colore leggermente diverso significherebbe mandarlo al macero.
Ma questi semi sono brevettati. Tecnicamente si chiama “privativa per ritrovati vegetali”. Chi la detiene controlla “la propagazione e la commercializzazione della varietà protetta”. Non si tratta di tecnicismi. La battaglia sui semi è uno dei temi principali dell’agricoltura contemporanea.
La produzione mondiale dei semi brevettati è oggi in mano a un oligopolio di tre multinazionali
Secondo i dati Fao, negli anni Settanta c’erano oltre 7000 aziende sementiere, nessuna delle quali raggiungeva il mercato globale, mentre oggi le prime tre (Monsanto, Pioneer Dupont e Syngenta) detengono il 53% del mercato globale e le prime dieci ne detengono il 75%.
Secondo Slow Food, esistono “80.000 specie commestibili utilizzabili a scopo alimentare oggi se ne coltivano solo 150 di cui 8 sono commercializzate in tutto il mondo. I tipi di semi sono due: commerciali (selezionati, brevettati e venduti dalle aziende) oppure rurali (selezionati e scambiati dalle comunità contadine). I contadini producono altre piante in tre modi: direttamente da seme, estratto dalle piante e ripiantato; per innesto; per talea.
Fondamentalmente il ricatto delle multinazionali è legato all’inutilità di ripiantare il seme: la nuova pianta avrà caratteristiche diverse, sarà meno resistente a parassiti e pesticidi. Il frutto non avrà le caratteristiche chimiche e visive desiderate da supermercati e consumatori. Avrà una “vendibilità” inferiore. Evidentemente oggi questo non basta, c’è chi ripianta ugualmente i semi e allora le multinazionali hanno deciso di attivare la repressione. Ripiantare i semi deve essere reato non solo in teoria, ma in pratica. Se ripianti i semi finisci in galera.
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