Era l’anima libera, critica e caustica del Barolo. L’ultimo anarchico in cantina, in una terra con sempre più investitori e sempre meno vignaioli puri e artigianali. Beppe Rinaldi, per tutti “Citrico”, morto a 70 anni.
Stava male da tempo. Lascia dietro di sé ottimi vini e molti pensieri. Sulle Langhe, sul Barolo, soprattutto. In realtà ogni volta che discuteva del modo di intendere il suo lavoro, e di come lo vedeva cambiare attorno a sé, parlava più in generale del genere umano, di forza e debolezza, potere e sottomissione, onestà e furbizia. Le sue degustazioni pubbliche erano spettacoli di oratoria civile in cui il vino sembrava al massimo un co-protagonista, mai un centro di interesse esclusivo. Le sue esternazioni lasciavano il segno. L’ultima l’aveva affidata al “Corriere della Sera”, nel gennaio scorso. Così potente che, otto mesi dopo, continua a far discutere: proprio nel giorno della sua morte un sito del vino, Winesurf, propone sulla riflessione partendo dalla lettera di Rinaldi. Che riproponiamo qui sotto, come suo ultimo documento scritto. Quasi un testamento.
Ora tocca alla moglie Annalisa e alle figlie Marta e Carlotta proseguire il suo lavoro, continuando a trasferire nel Barolo quell’anima libera e il sorriso al tempo stesso dolce e beffardo, tra le labbra un mezzo toscano che ardeva come lui.
Ride, racconta barzellette, aneddoti sul vicino che s’arricchì vendendo nel mondo la tenaglia per castrare i vitelli. Ma si fa scuro quando parla dell’ultima decisione del Consorzio di Barolo e Barbaresco: aumentare nel 2018 di 30 ettari la coltivazione del Nebbiolo per il Barolo (un vigneto da 2.112 ettari in 11 Comuni), oltre ai 10 già concessi nel 2017. «Una scelta scellerata – proclama – ma qui non protesta nessuno, c’è omertà». Il vignaiolo che tutti chiamano «Citrico», per i suoi giudizi taglienti, ha una proposta alternativa. Eccola: «Invece di piantare Nebbioli anche sotto i letti sarebbe più vantaggioso includere Alba nell’area di produzione del Barolo. Si aggiungerebbero così terreni dell’Albese che già fa parte dell’area del Barbaresco, tradizionalmente e storicamente molto più vocati che non rittani e forre. Si salverebbero boschi, siepi, salici, querce e pioppi da tartufo».
Il 2 gennaio, la prima telefonata di “Citrico”: “ho qualcosa di forte da dire sul Barolo”. Ma prima di arrivare al punto ci sono volute molte altre telefonate, in cui Beppe si è destreggiato tra frasi fulminanti, guizzi ironici, proverbi e tanti ricordi. Fino a quando ha deciso: “Riassumo tutto quello che penso e ti mando qualche riga”. La lettura integrale (sulla versione cartacea dell’articolo è stata pubblicata una sintesi) racconta, al modo di Rinaldi, i cambiamenti del pianeta Barolo. Che ha chiuso l’ultimo anno con una crescita delle vendite del 7%. Un pianeta con bottiglie, come il Monfortino 2010 di Roberto Conterno, sul mercato a più di 1.200 euro, dove un ettaro di terra arriva a costare più di due milioni di euro.
Ecco il Rinaldi-pensiero.
“Barolo e Barbaresco dovrebbero essere d’esempio nell’enologia italiana nell’ottica della tutela e della dignità, nella lungimiranza, come lo sono stati insieme al Brunello, al Nobile di Montepulciano, al Chianti. Qui sono nate le norme e le appellazioni per volontà del senatore Desana e del Consorzio di tutela dei vini nato nel 1932. Forse il termine tutela di cui ancora si fregia il Consorzio suona ormai stonato. La quantità di vigne è già smaccata, è quasi tutto un vigneto, si sono già persi non il bucolico, l’agreste, ma i fazzoletti di colore, la diversità, a beneficio del monotono, della monocoltura esasperata. Poi se di un prodotto ne fai molto, lo fai meno bene, sei convinto dai soldi, il denaro convince e corrompe. Non si è per la povertà, ma vedere questi nobili vini andare da 10 a 300 euro fa pensare, come per l’aceto balsamico da 3 a 300 euro. Più la forbice si allarga, più mercantilismo e globalizzazione vincono.
Consorzio di tutela e Regione avallano questo andazzo, quando qualità e immagine stanno nella scarsità.
Non si dovrebbe far venire i turisti solo per il vino e il tartufo, va mantenuta la bellezza e l’integrità del paesaggio. Ci vorrebbero dei vincoli a difesa delle varietà dei pochi boschi rimasti e contro il consumo del suolo, contro il neo gotico, il neo-medioevo, il neo-palladiano e il neo-pop, lasciamoli agli americani. Invece ci si vuole distinguere a tutti i costi, lasciare il segno del nostro passaggio e arrivare a una rapida immagine, quando la vera originalità in certi luoghi non è il rischio ma forse, la normalità. Anche perché di Giotto ne nascono pochi!
Barolo e Barbaresco non dovrebbero nascere o essere proposti in cantine cliniche, volute da norme scellerate, partorite da chi al potere ignora. In Borgogna e in Alsazia vini e legni stanno sulla terra, sulla pietra, sulla ghiaia e vengono buoni, se lo sguardo si alza si vedono muffe e ragnatele, anche pipistrelli. Sono un valore aggiunto, c’est charmant ci viene detto.
Dall’Unesco è stato premiato il patrimonio vitivinicolo, non già i borghi.
Per mettere vigne violentiamo queste colline quasi uniche e preziose, feriamo questi profili con aggressività e impostura; non le “ scuà d’ cà “ – le scopate di case dei nostri antenati ma le villette a schiera.
Siamo ciechi, ci immoliamo scientemente al dio denaro per la moltiplicazione di pani e pesci o per narcisismo. La qualità non sta nell’abbondanza, specie per certi prodotti la cui gerarchia è insita, ineludibile; un Dolcetto, una Barbera non diventeranno mai un Nebbiolo, però si deve rispettare pregi e collocazioni di tutti i vini, come affermò Giorgio Bocca.
Il Barolo di RinaldiIl Barolo di Rinaldi (Foto Ivano Antonini)
Questi poggi sono fragili, le marne scivolano a valle, se capita si grida al lupo.
I nostri vecchi con un bue non potevano certo pensare di ribaltare un colle. Noi abbiamo le ruspe e le jumbe, e l’albero è diventato un ostacolo come il ciabot all’avanzare del cingolo. Tagliamo gli alberi anche per il posteggio delle auto e dei pullman.
C’è chi afferma che battiamo i francesi sui mercati con i numeri delle bottiglie, ma qui abbiamo avuto il becco di appellare le zone vocate, i blasonati cru, in primis “ sottozone “ poi “ menzioni geografiche aggiuntive” . Il grand cru come la grand minzione, quella del mattino…, o la petite quella a margine del villaggio, e pensare che abbiamo il sorì, bello per suono e immagine che evoca il sorito, soleggiato, di per sé elogiativo. Scimmiottiamo pure, ma almeno in positivo, senza sudditanza, con dignità e furbizia. Su queste colline non abbiamo mai recintato le vigne, non ci sono pietre per i muretti e i clos della Borgogna di conventi e monaci. Abbiamo sempre unito le vigne; i Marchesi Falletti, signori del Barolo, mescolavano le uve della zona di Serralunga con quella di La Morra e Barolo. E’ migliorativo per l’armonia e l’equilibrio di vini prodotti da monovitigno ma pare che lo si neghi, ed è vietato dichiararlo sulle etichette per timore , omertà, sudditanza o per semplici interessi di lobbies mercantili. La democrazia è un lusso su queste colline, ma lo è pure per la nostra Italia che De Gaulle apostrofò non paese povero ma povero paese. Le vigne nelle LangheLe vigne nelle Langhe
Il Consorzio dei vini che ha fatto negli anni rivoluzioni definite e sbandierate come copernicane, ha anche svenduto anima, ruoli e dignità pure ad un ente di controllo, nel caso Valoritalia; ha anche tentato di superare il monovitigno Nebbiolo, un privilegio ma al contempo una angustia e una sfida.
I soci del Consorzio devono pagare ma non votare in assemblea perché “ragionano di pancia”.
L’etica del feudo va mantenuta su questi colli magici e famosi. Ci si deve arricchire, ma non maturare, piuttosto le viti anche sui tetti, ma non la cultura,, quando è anche per essa che devono venire i turisti. Trionfano fortune e vigne, pericolosamente, anche in luoghi poco degni; il clima è molto cambiato e il Nebbiolo tardivo matura oggi fortunatamente anche dove c’erano noccioli e pascoli. C’è ancora il ricordo di quando, privi di norme, di Doc e Docg arrivavano i Tir dal Sud con il Reposto, il Nerello e il Nero d’Avola, il Cirò per aggiustare i Nebbioli scricchiolanti. Si tentò molto più recentemente di cacciare in nobili vini, già passati nel frattempo da pochi 6 a 13 e ora forse a 18 milioni di bottiglie “vitigni a bacca nera”. Eppure abbiamo davanti l’esempio del Brunello con annessi e connessi passato da 200 a 2.000 ettari in un tempo assai breve. Un vigneto di Nebbiolo per BaroloUn vigneto di Nebbiolo per Barolo Forse aveva ragione Domizio Cavazza fondatore della grande Scuola Enologica di Alba e inventore del Barbaresco. Il suo progetto pare fosse d’estendere la zona del Barolo sino a Barbaresco; certo il delirio di un sognatore di Modena libero dal campanilismo di questi colli. Ma, in luogo di mettere Nebbioli anche sotto i letti, sarebbe allora più vantaggioso includere nell’area di produzione Alba, la capitale. Un dodicesimo comune per il Barolo, la dozzina è un bel numero anche per le uova d’oro…
Si aggiungerebbero così terreni dell’albese che già fa parte dell’area del Barbaresco , tradizionalmente e storicamente, molto più vocati che non rittani e forre. Si salverebbero boschi siepi e salici e magari querce e pioppi da tartufo. Barolo e Barbaresco vini dai profumi e gusti eleganti e nobili, avrebbero così la benedizione di nobili donne, dai palati raffinati e davanzali ubertosi. La Contessa di Mirafiore amante e moglie di re Vittorio e la Castiglione, cugina di Cavour, che frequentarono questi colli anche per la gioia dei contadini di Langa.
Da quando 'CItrico' ci ha lasciati la sua eredità è passata Giuseppe e aalla moglie, che, con un'enorme responsabilità sulle spalle e nelle mani, hanno preso in mano la cantina e l'eredità non soltanto vitivinicola di Beppe Rinandi, ma anche quella culturale. Già Perchè ?Citrico' era un uomo colto, conosceva come le sue tasche le langhe e la sua storia. Amante di Cesare Pavese e non solo.
#Divinocorriere
Questi i suoi vini:
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