Partecipare con lo sguardo esterno all’innesto in campo a Cirò è un’esperienza agronomica sempre illuminante a cui ho avuto modo di assistere per la seconda volta negli ultimi anni grazie a Cataldo Calabretta, viticoltore a Cirò e a Rocco Pirìto, innestino sopraffino.
Tra le pratiche vitivinicole quella dell’innesto “a gemma dormiente” fatto ad agosto è forse la più ardua, la meno semplice da tramandare. È un mestiere oggi sempre più anacronistico che si impara fin dalla tenera età, affiancando in vigna il nonno, il papà o un altro anziano disposto a farsi rubare l’anima con gli occhi. “Da ragazzi”, dice in cirotano stretto un innestino anziano accovacciato su un cuscino impolverato mentre a capo chino con estrema naturalezza e con maestria da orafo è intento all’incisione del sarmento, concentrato sull’innesto della gemma, sulla legatura con la ràfia assieme a qualche tralcio protettivo per far attecchire la gemma calcificandola al taglio sul piede della vite in maniera tale da farla combaciare alla perfezione alla nicchia intarsiata sul portainnesto: “Da ragazzi era un lavoro che facevamo gratuitamente, cioè non ci pagavano affatto!”L’innesto a gemma (scudetto o zufolo) detto anche “alla majorchina”, viene eseguito prevalentemente al Sud, dove l’anticipo della maturazione del legno consente di raccogliere sarmenti “in succo” con gemme già parzialmente lignificate. Maiorchina starà ad indicare l’origine insulare ispanica ai limiti del Mediterraneo occidentale, di questa pratica atavica. Tra le tante forme di innesto, la maiorchina è una tecnica antichissima di chirurgia vegetale che richede grande perizia, nervi saldi, sangue freddo, mano decisa ma delicata, esecuzione rapida. Quest’arte di biotecnologia empirica assai arcigna da trasmettere, è destinata a scomparire con gli ultimi vecchi innestini a cui è venuto a mancare il vivaio generazionale dei più giovani interessati alla continuità di questa ancestrale tecnica agronomica illustrata dai gloriosi trattati di Varrone (116 a.C. – 27 a.C.) e del Columella (4 d.C. – 70 d.C.). Un signore bulgaro segue gli innestini sul campo per farsi insegnare la difficile arte chirurgica. Scruta ogni gesto minimo delle mani. Assorbe il ritmo di lavoro. Seleziona a occhio le gemme adatte all’intaccatura sull’apparato linfatico del portainnesto, in attesa smaniosa di poterlo fare a sua volta con le proprie mani, centinaia di innesti al giorno. Memorizza ogni dettaglio anche meno significativo all’apparenza. Un fischio stridulo quasi un singulto, ad esempio, deve suonare come un singhiozzo secco che emette la lama del coltellino da innesto quando fende il sarmento per cavarne la gemma. Ferro che affonda reciso nel legno: se non si sente quel sibilo aspro e gracchiante significa soltanto che si è tagliato male.
Da un’intervista concessa poco prima di morire, Vittorio De Seta documentarista tra i più grandi della storia del cinema (vedi In Calabria del 1993) interrogato in merito al lavoro manuale riafferma il concetto di reificazione del buon vecchio Marx, dal tedesco Verdinglichung cioè «materializzazione»:
Perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. Vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo.
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