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giovedì 13 agosto 2020

“Vedo che se ne intende di vini. La maggior parte dei nostri ospiti non saprebbe distinguere un vino di Bordeaux da uno bordolese.” John Cleese nel ruolo di Basil Fawlty


                                    LA MASERATI DEGLI CHAMPAGNE

Ancor prima di assaggiare il Salon, fui affascinato dal suo nome, così evocativo di un’intersezione tra vita sociale e vita intellettuale – di George Sand che intrattiene Flaubert e Turgenev, o di Gertrude Stein che accoglie Picasso ed Hemingway. La più prosaica verità è che il Salon ha preso il nome del suo creatore, Eugène-Aimé Salon, che fondò questo piccolo domaine di Champagne nel 1921, dopo aver fatto fortuna come commerciante di pellicce.

Il Salon potrebbe rivendicare di esser stato il primo vino di culto del ventesimo secolo; negli anni venti e trenta fu lo Champagne della casa da Maxim’s ed è stato fatto in quantità così esigue da far sembrare il Cristal un prodotto per il mercato di massa. Se ne avete anche solo sentito parlare, allora avete probabilmente le carte in regola per diventare maniaci del vino.

A essere sincero, fino a poco fa avevo assaggiato il Salon solo tre-quattro volte, restandone sempre folgorato. Certo la rarità (e il costo) accresce l’aura di mistero, ma per la mia esperienza non appena lo si assaggia la risposta alla domanda “una bottiglia di Champagne può valere duecento dollari?”  appare ovvia. Il mio primo bicchiere di Salon (dell’82, nel ’96) mi fece pensare per molti aspetti al mio primo tartufo bianco, e in effetti si tratta di uno dei più grandi abbinamenti enogastronomici. Risotto, tartufo, Salon. Oh, mio Dio.

L’unicità del Salon è il risultato di diversi fattori. Fu il primo Champagne Blanc de Blancs fatto interamente con uve Chardonnay con la migliore esposizione dei vigneti di Le Mesnil-sur-Oger, il paese più illustre della regione per lo Chardonnay (e patria anche del Clos du Mesnil di Krug). A differenza del Krug, l’altro Champagne di culto, non si avvicina neppure a una botte, vecchia o nuova che sia. Viene prodotto solo nelle annate migliori. (Lo si asserisce di tutte le più grandi cuvée, anche se poi vengono offerte le vendemmie anche di annate non certo stellari, come quella del ’92.) Viene solitamente messo in commercio dieci anni dopo la vendemmia (l’annata attuale è il 1996) e secondo gli intenditori è al suo meglio un decennio o due più tardi.

“Se il Dom Pérignon è la Mercedes degli Champagne,” dice Didier Depond, lo spumeggiante direttore della Salon, “allora il Salon ne è la Ferrari o la Maserati.” La maggior parte di noi probabilmente non avrà mai la possibilità di guidare una di queste auto, ma il Salon è un lusso relativamente abbordabile e che non va necessariamente circondato dalla pompa e dall’ostentazione, elemento che Depond voleva probabilmente sottolineare invitandomi a dividerne un paio di bottiglie con lui al J’Go di Parigi – un rumoroso bistrò di tendenza nel nono arrondissement. Mi sarei aspettato di bere questo augusto nettare al Ducasse o al L’Ambroise, dato che Depond è un habitué di entrambe i locali, ma è anche un appassionato di corride con un deficit di pretenziosità. C’è qualcosa di veramente tonificante in un grande Champagne di lusso in una cornice informale.

Il Salon del ’95 con cui abbiamo cominciato era qualcosa da assaporare da solo, corposo e di consistenza incredibilmente setosa, con una mousse di minuscole bollicine, ma grazie alla stilettata d’acidità si è dimostrato un compagno sbalorditivo per una serie di tapas.

Ancor più seducente è stato quello del 1988, i cui aromi hanno evocato in me l’idea – per quanto folle possa sembrare – di camminare nei boschi del New England in ottobre con una forma appena sfornata di pane lievitato naturalmente sotto il braccio. Era incredibilmente lussureggiante in bocca, più giovane e fresco di quanto non ci si sarebbe aspettati dal profumo. Depond disse che l’avremmo bevuto con il “toro”, e io intesi ventresca di tonno e pensai che con lo Champagne fosse un abbinamento molto appropriato. Il toro si rivelò però una porzione saporita e robusta di un animale da poco morto nell’arena. Fu servito prima in versione carpaccio, poi a fette e grigliato, piacevolmente affiancato in entrambe i casi dal Salon dell’88. Non ho dubbi sul fatto che non mi ritroverò più davanti a un simile abbinamento, ma non lo dimenticherò mai. Forse quello che sto tentando di dire, grazie all’idea di Depond, è che tutto si accompagna bene con il Salon – o forse, che in questa epoca in cui l’alto e il basso si mischiano e si confondono nell’estetica, in cui ci sono jeans di alta moda e Harley-Davidson al Guggenheim, non dovremmo essere troppo riverenti o formali con un grande Champagne.

Per la maggior parte di noi, il Salon sarà sempre un vino per le occasioni speciali più che un compagno per il pranzo e la cena. Gli intenditori con mezzi limitati possono provare una versione prêt-à-porter del Salon tramite la Champagne Delamotte, fondata nel 1760. Quasi tutti gli anni, le uve che in una grande annata diventerebbero Salon vanno invece alla sua cantina gemella, ed entrambe sono adesso di proprietà della Laurent-Perrier. Il Blanc de Blancs Delamotte è un sostituto più che soddisfacente del Salon, e un’eccellente espressione dello Chardonnay di Le Mesnil a meno della metà del prezzo. Anche il brut e il rosé non di annata sono estremamente buoni. Questo è il mio regalo di Natale per voi – la soffiata dell’addetto ai lavori. Se riuscite a trovarla, fate di tutto per regalarvi una bottiglia di Salon per Natale. E fate in modo di mettere da parte una cassa di Delamotte per l’anno nuovo.

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