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sabato 22 agosto 2020

Da La Terra Trema: Nell’abbandono, di luoghi, case, vigne, ceppi sparsi, c’è quasi sempre spazio per una rivoluzione delle sorti, per un recupero eccezionale delle storie che luoghi, case, vigne, ceppi si portano dietro. Agli occhi dei più è fatica, irrazionale e incongrua, per chi la agisce invece è lampante vitalità del voler risorgere.

 Les mur ont la parole. I muri parlano, nei paesi come nelle città.

Nel nostro ingresso in Veneto sui muri si avvicendano stencil rossi del leone marciano. La spada, il libro, le ali, la Lega. Il Veneto che varchiamo, in questo passaggio interregionale, è quello dentro a questioni calde, cocenti: il Covid e la sua gestione, qui sotto l’ala di Zaia, quello dei tamponi solerti a tappeto. A quanto pare. A Breganze, provincia vicentina, sui muri si rincorrono ancora i leoni rossi disegnati, spray su mascherina della lega veneta. Tra un felino e l’altro un Salvini Premier è cancellato da un cubitale: coglione.
È la prima impressione, poi arrivano le ultime ciliegie, vendute sulla strada e le cantine, famose, famosissime, enormi, come cattedrali.
Cristian ci ha chiesto diligenza, “partite per tempo”, abbiamo occasione di fare tutto ma le sue vigne sono sparse e ad attraversarle bene ci vuole. Non è faccenda di grandezze, gli ettari sono pochi, ma di diversità. Ligi al dovere arriviamo presto.



Andiamo al museo
La casa è ai margini di un anfiteatro naturale. L’ossatura, di basalto e roccia effusiva, conta tre grandi falde laviche, le fratte. La prima collina è Santo Stefano, poi vengono Montegoggio, Torricelle e la Costa.
L’edificio risale al 1904, abbandonato dagli anni Ottanta oggi è preso in affitto con piccole vigne intorno di cui Cristian si prende cura.
Poco in basso scorre una provinciale, non affollata ma comunque frequentata. Motociclisti, ciclisti, trattori.
Nel corso del lockdown il silenzio era un tuffo dentro altri tempi, interrotto dal chiacchierio del codirosso.
Arianna, compagna di Cristian, ci racconta di quel panorama sonoro surreale che li ha avvolti per oltre due mesi, pure freschi della nascita di Emiliano.
Cristian Moresco dà vita a Rarefratte nel 2012. È cresciuto tra vigna e cantina e come lui lo furono a loro volta padre, Gianfranco, e madre, Graziella. La storia contadina della sua famiglia si inerpica come un tralcio per anni e anni a precedere. Ad esempio, una volta c’era Guerrino Vitacchio, da parte di madre, maestro del Torcolato, uomo della terra a tutto tondo, di quelli che piacevano a Virgilo Scapin, che molte volte quelle terre ha raccontato e assaggiato (i piccioni, ad esempio, torresani allo spiedo). Guerrino, con grande intuito, lavorò sulle potenzialità di quel territorio e dirottò la produzione di uve familiare anche con guitti ispirati.
Breganze la cittadina ha un rapporto stretto col vino. Grossi nomi, grandi potenze.
Lì fu istituita una delle prime D.O.C. sul finire degli anni Sessanta, la Breganze, che contiene Vespaiolo, uva a buccia bianca coltivata nella pedemontana vicentina usata anche per produrre il Torcolato, Marzemino ma anche materia più internazionale, Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, per dirne alcuni.
Cristian però ha deciso di lavorare in altra direzione. Già adolescente subisce il fascino della moltitudine variopinta che popolava le sue colline vitate e lì si dirige, lavorando sull’infinitamente piccolo, sulla ricerca di piante rarissime, sullo studio accurato delle autoctone, su un patrimonio disconosciuto ai più e su cui quasi nessuno aveva voglia e tempo di scommettere.
Così comincia. Chiede, scava, cerca, tra vigne abbandonate, orti, memorie e così dà forma al suo piccolo tesoro di rarità salvate. Cultivar e biotipi altrimenti in via di estinzione, vitigni che sono antiche presenze del breganzese. Gruaja, pedevenda, groppella di Breganze, marzemina bianca (sampagna), vespaiola, glera lunga (ottocai). Qualcuno lo segue ma i più lo guardano strabuzzando gli occhi.


Andiamo
Posto il piccolo Emiliano in marsupio, Vento al guinzaglio, partiamo verso la prima esplorazione tra i colli breganzesi. Si parte dal centro, dalla piazza principale, ci si avvia a piedi verso l’altissima torre campanaria (si dice pagata in casse di Torcolato), la più alta in Veneto dopo quella di San Marco. Le stradine portano velocemente fuori dal paese.
Sali. Segui muretti di pietra e arrivi ai filari, che guardano dall’alto. Dietro il cancello una fonte fresca affollata di rane e foglioline lenticolari di lemna. Subito è salita ripida lungo la Costa, il museo a cielo aperto snocciola le sue vigne, garganega, vespaiola allevata a doppio capovolto, pedevenda, una pergola a ottocai.
In posti come questo è iniziato il lungo lavoro di recupero delle marze mediante selezione massale e la relativa propagazione. Qui ha lavorato sulla conservazione e sulla riproduzione.
Un lavoro d’intuito ma empirico fondato sulla sperimentazione, sulla messa in pratica: recupero di vecchi portainnesti, espianti, impianti nuovi, osservazione, e poi micro vinificazioni, “la messa alla prova”.
I risultati ha imparato a leggerli sul campo. Resa, tempi, reazioni. Le autoctone sono meno soggette a flavescenza dorata, dove ci sono loro sembra rallentare.
Percorrere questo paesaggio di vigne è camminare un/il mondo. Forme ed età sono diverse, ogni pianta chiede di essere riconosciuta come esemplare. Un panorama autonomo che domina su Breganze. Per qualcuno è follia visionaria, qualche altro, invece, ha riconosciuto la luccicanza, l’intelligenza che animava quella ricerca e a Cristian ha portato marze abbandonate quasi fosse tutore eletto, rota degli esposti vivente.
Pranziamo a casa di Arianna e Cristian. Sotto il nido del codirosso. I formaggi, blu di capra, caciottella di Montegalda, gran capra. Sono quelli de La Capreria, l’azienda agricola a Montegalda dove Arianna è cresciuta. Lì Enrico Grandis e Laura Gandolfini, genitori di Arianna, hanno intrapreso e ben avviato un’impresa biologica. Era il 1982 e l’aspirazione era quella a certe sensazioni dei formaggi francesi che al papà, padovano, piacevano moltissimo.
Arianna si avvicenda tra queste due storie, un via vai non semplice a nord e a sud di Vicenza. Con lei Emiliano, scricciolo di pochi mesi già avvezzo a vigne e cantina, stalla e caseificio.
Stappiamo, la camminata in vigna ha confermato consapevolezze ma ha restituito molta sete.
Cristian apre con il suo Colè, dal nomignolo che appellava la famiglia Moresco che abitava le colline, i colè. È un’invenzione, da gruaja di Breganze, il grappolo, a bacca rossa, che difficilmente arriva a completa maturazione, spesso su di esso si ostinano piccoli acini verdi.
Un tempo veniva vinificata in rosso ma Cristian preferisce lavorarla in bianco, è ne ha fatto la sua prima bolla. Separato il mosto dalle bucce lascia che rifermenti in bottiglia.
Tra le cose che ci piacciono di Cristian c’è il suo percorso politico personale, qualcosa che era emerso al Leoncavallo durante l’ultima edizione de La Terra Trema ma a tavola ci torniamo. Le ragioni politiche, i centri sociali, gli anni Novanta e Duemila. Cristian è un attivista, uno del movimento, ne ha viste molte tra frequentazioni padovane, l’Arcadia di Schio, il c.s.a. Yabasta a Vicenza. L’attitudine metropolitana degli spazi occupati e l’indole terragna. In qualche modo ci siamo passati entrambi.
L’asse Bergamo/Treviso incombe, poco distante come città diffusa, capillarizzata, con i suoi capannoni, le strade veloci, le merci, i soldi, i poteri da piazzare.
Intorno città che eran rosse. Città contadine e poi operaie che come tali hanno subito modificazioni sostanziali. Cementificazione, disgregazione sociale. La Lega nel giro di decenni prende piede portandosi dietro la destra più estrema e incarognita. Sempre di più si fanno pressanti questioni ambientali e sociali. Questioni fondamentali, nella salubrità dei luoghi c’è la salubrità delle persone.
L’epidemia asfissiante che ci sta opprimendo è un segnale fin troppo evidente.
Lo sguardo critico di Cristian è segnato dalla rotta. L’approccio zapatista alla terra è un gigante manifesto politico per un contadino come è lui. Para todos todo, nada para nosotros, torna, anche qui. Insomma le sue pratiche si mescolano alla vita e viceversa, ci prova, le idiosincrasie della politica locale e regionale son ferite aperte per il territorio più diffuso e per il suo progetto privato, alla mercede non solo di infernali iter burocratici ma di veri e propri dirottamenti di fondi, investimenti. Per i piccoli produttori come lui è un salasso mortificante e mortifero. Per i grossi nomi sono bazzecole.
Cristian versa ancora.
Vespaiolo, dalla più tipica delle autoctone del breganzese, la vespaiola, dai più usata per il Torcolato, passita.
La nostra Sciampagna da marzemina bianca, in carta al Folletto25603.
E una chicca, Gruaja Metodo Classico.
Finiti pranzo e bevute Cristian ci concede qualche minuto al fresco di un pruno, poi ci invita a continuare il girare per vigne e colline. Si va ancora a piedi, serve solo attraversare, con attenzione, lo stradone, prendere al lato un campo coltivato a mais e poi salire il col Santo Stefano, rilievo collinare, tra prati, erba alta, boscaglia, equiseto e le vigne, il nuovo impianto a gruaja e groppella, marzemina bianca e pedevenda.
«Oltre la collina, di lì, vedete, l’altopiano di Asiago».
Chiudiamo il nostro viaggio nella grande fatica di Cristian e famiglia. La cantina.
L’aria è più fresca, la giornata è stata ardente tra le prime così calde per quest’anno.
Qui abbiamo modo di conoscere il cuore di Rarefratte, la sua ragione genetica, Gianfranco e Graziella. Gianfranco è seduto di spalle, da una sedia sul selciato guarda quelle colline verdissime come fosse a teatro.
«Sono appena andate via, le bambine, erano lì, indica con le dita, seguite da oche e pulcini, in fila». Ci dice con entusiasmo così coinvolgente da farci rimpiangere di aver perso quella piccola visione. Scorgiamo però il pascolo di due asini, in alto, e piccole vigne private e ancora Asiago, il suo altopiano.
La cantina è nuova, grande è l’investimento, questione dolorosa per le sue economie.
Nel piccolo giardino che la precede Cristian ha piantato un brevissimo filare dei suoi biotipi ad Alberello e Golia. Qui ha alzato la posta recuperando vecchi porta innesti su cui lavorare. Se sarà una giocata vincente lo scoprirà tra qualche anno. Le marze innestate su vecchie varietà sembran dare vita a piante più resistenti agli agenti patogeni, più vigorose rispetto a quelle unite a portainnesti moderni. È ancora una scommessa ma nel collocarle in quel posto ripone un vero e proprio totem. Non l’unico tra l’altro, lo capiremo.
Ci accompagnano all’interno. Una foto in bianco e nero sancisce un passaggio di marze con Firmino Miotti, istituzione a Breganze.
«Ve lo ha detto Cristian che mi ha rimandato a scuola? Son dovuto andare a scuola di potatura.
Che dire: Siamo la rovina della viticoltura del territorio!» Scherza Gianfranco, ma precisa, ama il lavoro del figlio, ama il suo modo di rispettare la vite. Lo capisce profondamente. Percepisce quel lavoro sull’abbandono come atto generosissimo. Anticipa il nostro scendere in cantina, ci avverte, ci tiene, «prima che andiate via devo portarvi a conoscere mia figlia».
La cantina si apre su una prima sala con vasche di cemento non vetrificato e altre di acciaio. Le vasche in cemento del nonno sono in una seconda stanza con le botti di acacia e ciliegio poroso, qualche vasca di vetroresina. Assaggiamo la Sciampagna 2019, “deve fare almeno un caldo” prima di uscire. Fermenta in cemento e poi avviene il travaso.
Intorno la Pedeveska, la sua macerazione avviene con le bucce per sei giorni, poi passa in vasche di cemento. Da uve pedevenda, è un vino sapidissimo, ispirato da frequentazioni carsoline.
Rarefratte rosso, da uve groppella e uve rosse di Breganze. La groppella di qui è simile al nebbiolo, tannini decisi che ben si sposano alle morbidezze delle uve rosse locali, più delicate, tonde. Questo rosso fermenta in cemento e poi passa in botti di rovere esauste.
8-cai, la glera lunga è un’altra storia di territorio. Una vigna familiare presente in ogni corte, in ogni casa, un tempo dava un vino di quotidiano benvenuto.
Risaliamo
Graziella ha preparato frittelle dolci di zucchine. Gianfranco attende di portarci dalla figlia.
Giriamo intorno alla cantina. Sembra un piccolo borgo di case nuove e più vecchie.
C’è la sua vecchia casa. «Lì abitavo io, quello è il mio trattore». E c’è quella nuova, con un giardino fiorito, rose, un orto ordinato e fruttuoso che gli invidiamo, i ciliegi, gli ulivi. «Oggi ho raccolto le prime patate. Prima di andarsene devo darne a questi signori», dice a Graziella.
“Di qui”. Camminiamo ancora, poco oltre. Sotto una struttura in legno d’altri tempi, un berceau domestico, riparo dal sole, alloggio di cipollotti messi a riposo sporge una pergola che all’inizio sembra nascosta. È la bambina, la figliola cui Gianfranco vuole un bene paterno. Figlia per lui è per generazione sua generosa madre, prodiga nonna, forse di più.
Vite, ottocai, certamente secolare che pare estendersi sull’intero quartiere. È l’epicentro di questa storia di ricostruzioni e di propagazioni, di cura e di smisurato rispetto delle cose della natura. Nell’amorevole affetto di Gianfranco per sua figlia c’è profonda ragione. Merita devozione e un piccolo santuario questa viva santa, questa meraviglia totemica.


Testo e foto di Laura M. Alemagna

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