Oggi sono duecento anni esatti dalla nascita di Pellegrino Artusi. Protagonista suo malgrado, personaggio pubblico pur essendo schivo e incline alla riservatezza: che uomo l’Artusi, diventato oltremodo famoso a sua insaputa, dopo la morte. Certo che il poveretto viene sempre messo in confronto ad Auguste Escoffier, chef celebrato e famoso che ha scritto “Le Guide Culinaire” ma si tratta di due uomini dall’ esperienza di vita completamente diversa. Il francese è l’esempio di maschio virile e maschilista, che ritiene doveroso formare i cuochi secondo un concetto militare, inventando la brigata di cucina ed una gerarchia paurosa, che partiva dall’apprendista ed arrivava a LO CHEF, dove le comunicazioni avvenivano secondo schemi precisi, con l’inferiore che doveva parlare solo con il diretto superiore.
Ed Escoffier amava il fuoco, la battaglia, le ricette complicate e piene di ingredienti impossibili da riprodursi in casa.
Invece Pellegrino Artusi non era così: benestante ed amante della cucina, gli affari di famiglia lo avrebbero costretto a vivere in una Forlimpopoli piccola e chiusa, se non fosse arrivato il Passator Cortese a sconvolgergli la vita. Di cortese aveva poco Stefano Pelloni, criminale morto a meno di trent’anni dopo aver seminato terrore, morti e stupri: quello compiuto a Gertrude, sorella dell’Artusi , impazzita dopo l’accaduto, fu la goccia che fece traboccare il vaso e fece scappare il buon Pellegrino dal natìo paesello.
Non è mai stato un cuor di leone nella sua vita, il grande gastronomo, amava occuparsi in maniera tranquilla di aspetti culturali che gli davano piacere, senza avere il piglio imprenditoriale e fattivo degli uomini forti dell’epoca. Non era un buongustaio alla Rossini, crapulone e dissennato, non era un amante generale dei piaceri: mai accostata una donna alla sua persona, mai parlato di alcol e distillati, vini e liquori, i sensi dovevano essere sempre controllati, mai portare le persone sulla via della perdizione.
I consigli nel suo libro sono anche di carattere igienico salutare, in un’epoca nella quale non si poteva certo pensare che i cuochi fossero preparati in maniera impeccabile anche in quel settore. Il successo non arriva a settant’anni: la prima edizione fu un fiasco clamoroso, il libro pubblicato a sue spese, spedito a Forlimpopoli, viene rifiutato anche da alcuni concittadini che lo vincono alla lotteria e non sanno che farsene.
Però alla sua morte, arrivata il 30 marzo 1911 a 91 anni, le edizioni sono state numerose, con un numero di copie vendute in vita, che farebbero oggi impallidire scrittori famosi attuali. Un moderno Camilleri, diciamo, che vede la sua fama accrescere in piena età senile: un uomo POP, che parla a tutti, che non cerca linguaggi astrusi, come fanno oggi tanti degustatori del vino, ma un uomo atipico, che voleva parlare alle donne, perché questo era il ruolo dell’epoca della parte femminile, insegnando loro cose nuove e gradevoli della cucina italiana, quando ancora si cucinava per compartimenti stagni nelle varie regioni , dove una ricetta fatta a cento chilometri di distanza era un mistero assoluto.
Oggi morirebbe di fronte ad un’esposizione perenne di chi il cibo lo cucina, lo narra, lo mangia. Ma la sua discrezione ha fatto scuola in maniera silenziosa e diffusa, creando uno dei pochi legami che unisce l’Italia tutta, insieme al calcio e alla pizza. E il vino? Eccovi una sua “ricetta”, solo a scopo divulgativo.
Claret cup (bibita inglese)
Per questa bibita, che merita di esser descritta perché piacevole e di facile esecuzione, occorre vino rosso di ottima qualità. Può servire tanto il bordò quanto il chianti, il sangiovese e simili.
Vino, decilitri 5.
Acqua, decilitri 5.
Limoni, n. 5.
Zucchero bianco, grammi 500.
Fate bollire lo zucchero nell’acqua cinque minuti. Tolto dal fuoco, strizzate in questo siroppo i limoni e versateci il vino, poi passatelo da un pannolino. Rimettetelo al fuoco per farlo bollire adagio 25 minuti e diaccio che sia imbottigliatelo. Servitevene allungato coll’acqua e raffrescato col ghiaccio in estate. Dovendolo conservare a lungo, tenetelo in cantina.
LEONARDO ROMANELLI
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