Non servono guide per attraversare il Bosco di Bistorco.
Ognuno in questo viaggio sarà da solo.
Ma se non avrà timore dei fruscii e non si lascerà stregare dalle ombre forse riuscirà ad incontrare se stesso
sul sentiero di luce dove non si viene e non si va.
Ognuno in questo viaggio sarà da solo.
Ma se non avrà timore dei fruscii e non si lascerà stregare dalle ombre forse riuscirà ad incontrare se stesso
sul sentiero di luce dove non si viene e non si va.
Nel bosco di Bistorco.
Redatto in parte in regime di quarantena, in parte in semilibertà, questo numero de L’Almanacco de La Terra Trema raccoglie narrazioni provocate da uno stato delle cose mai vissuto (non in tempi recenti) e a cui fatichiamo ancora ad adeguarci.
Fatto salvo per un prima, di Jacopo Andreini, uomo ancora libero in Puglia nel mese di febbraio, le parole prodotte, quelle lette e accolte hanno tutte questa inevitabile matrice.
L’epidemia, che ognuno ha sconvolto, ha dirottato riflessioni e pratiche quotidiane di tutti, lo ha fatto in modo coercitivo, sottoponendo un ricatto per ognuno diverso: salute, affettività, economie, consumi alimentari, socialità. Quasi ovunque ogni declinazione pure minima del vivere ordinario è caduta come testa ghigliottinata nella cesta.
Se dunque, per stato di necessità, per buona parte siamo stati dirottati e dirottate dal virus e da chi ne ha gestito l’emergenza, se questa reazione sanitaria e sociale è stata sulle nostre vite sovradeterminante è bene farci i conti con coscienza, capirne la portata.
Questa costrizione estrema ci ha cambiato e vale la pena ragionare intimamente su questo mutamento, sulle risposte attivate per sopravvivere alla catastrofe se non altro per far fronte agli orizzonti (individuali e collettivi insieme) che, questo navigare a vista, pone davanti.
Sapevamo che questa pandemia avrebbe accentuato disuguaglianze e disgregazione sociali, che avrebbe amplificato una situazione già avviata, dottrine economico-politiche già fortemente degenerate. Non abbiamo misura di come questo stia accadendo, sappiamo solo che sta accadendo velocemente.
Nelle strategie di governo il risanamento del disastro sanitario, il diritto alla salubrità dei corpi e dei territori sono e rimarranno elaborazioni inconsistenti.
Più povertà, più controllo, più precarietà. Il sistema paese quel che sta generando è soprattutto questo e le politiche sembrano muoversi per domare il trittico non per estinguerlo.
Ipocrita (o ingenuo) credere di colmare l’enorme divario creatosi al solo suono di bonus, incentivi, contributi a fondo perduto, donazioni e volontariato. Soprattutto alla lunga. A meno di non voler fare struttura verticale di questo stato di cose. A meno di non voler rendere queste macerie abitabili. A meno di non voler ampliare il solco, le distanze e governare le categorie, gli individui, le egonomie, le mie prima delle tue. Ognun per sé, nell’urgenza di sopravvivere. Gli aiutanti e gli aiutati.
Gioverebbe ripensare a se stessi dunque, alla propria prossemica, alle proprie distanze dall’altrui, se si è ceduto qualcosa nell’imminenza dell’annaspare. La privazione continuativa e distorta del contatto non ci abbia messo e non ci metta nella condizione di erigere (inconsapevolmente) visioni verticali delle cose, dei pensieri, delle azioni.
Fatto salvo per un prima, di Jacopo Andreini, uomo ancora libero in Puglia nel mese di febbraio, le parole prodotte, quelle lette e accolte hanno tutte questa inevitabile matrice.
L’epidemia, che ognuno ha sconvolto, ha dirottato riflessioni e pratiche quotidiane di tutti, lo ha fatto in modo coercitivo, sottoponendo un ricatto per ognuno diverso: salute, affettività, economie, consumi alimentari, socialità. Quasi ovunque ogni declinazione pure minima del vivere ordinario è caduta come testa ghigliottinata nella cesta.
Se dunque, per stato di necessità, per buona parte siamo stati dirottati e dirottate dal virus e da chi ne ha gestito l’emergenza, se questa reazione sanitaria e sociale è stata sulle nostre vite sovradeterminante è bene farci i conti con coscienza, capirne la portata.
Questa costrizione estrema ci ha cambiato e vale la pena ragionare intimamente su questo mutamento, sulle risposte attivate per sopravvivere alla catastrofe se non altro per far fronte agli orizzonti (individuali e collettivi insieme) che, questo navigare a vista, pone davanti.
Sapevamo che questa pandemia avrebbe accentuato disuguaglianze e disgregazione sociali, che avrebbe amplificato una situazione già avviata, dottrine economico-politiche già fortemente degenerate. Non abbiamo misura di come questo stia accadendo, sappiamo solo che sta accadendo velocemente.
Nelle strategie di governo il risanamento del disastro sanitario, il diritto alla salubrità dei corpi e dei territori sono e rimarranno elaborazioni inconsistenti.
Più povertà, più controllo, più precarietà. Il sistema paese quel che sta generando è soprattutto questo e le politiche sembrano muoversi per domare il trittico non per estinguerlo.
Ipocrita (o ingenuo) credere di colmare l’enorme divario creatosi al solo suono di bonus, incentivi, contributi a fondo perduto, donazioni e volontariato. Soprattutto alla lunga. A meno di non voler fare struttura verticale di questo stato di cose. A meno di non voler rendere queste macerie abitabili. A meno di non voler ampliare il solco, le distanze e governare le categorie, gli individui, le egonomie, le mie prima delle tue. Ognun per sé, nell’urgenza di sopravvivere. Gli aiutanti e gli aiutati.
Gioverebbe ripensare a se stessi dunque, alla propria prossemica, alle proprie distanze dall’altrui, se si è ceduto qualcosa nell’imminenza dell’annaspare. La privazione continuativa e distorta del contatto non ci abbia messo e non ci metta nella condizione di erigere (inconsapevolmente) visioni verticali delle cose, dei pensieri, delle azioni.
(…) ci sono parole che si posano sulla bocca e altre che si raccontano con le mani. Libertà è una di queste, è parola di scavo. Quando ci si libera con le proprie mani mettendo insieme l’ingegno collettivo e l’entusiasmo che fa salire la luce agli occhi, anche se il progetto si infrange la libertà si è conquistata comunque. Sembrerà bizzarro da dire, ma da quel canneto affacciato sul mare, da quel batticuore di sfida, con il carcere già alle spalle, io non sono più rientrato, ho preso il largo e se non io lo ha preso il mio immaginario.
Beppe Battaglia termina così il racconto dell’evasione dal carcere di Favignana nel 1975 ne Le tre libertà, Fotogrammi di un’evasione e altri modi d’uscita dalla prigione.
Beppe Battaglia termina così il racconto dell’evasione dal carcere di Favignana nel 1975 ne Le tre libertà, Fotogrammi di un’evasione e altri modi d’uscita dalla prigione.
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