Il fotoromanzo sarebbe che a cena da Pinchiorri ci ho portato la più bella della classe: a 15 anni e in gita scolastica. E
che poi abbiam fatto l’amore al Parco delle Cascine e dalla
finestra dell’albergo al mattino vedevamo Santa Maria del Fiore. La realtà è che da Pinchiorri a 15 anni e in gita scolastica
ci ho effettivamente pranzato, ma l’altro era il mio compagno di
banco ed era ancora più sfigato di me…
Giacomelli e io
Federico Giacomelli e io si andava al Liceo San Giuseppe a Torino. Datane la tradizione che non vi ammetteva studentesse di
sesso femminile, ti dovevi sfogare su altro: paginone di Playboy a
parte, noi due si aveva il tennis e la crapula. Il San Giuseppe non
era roba da operai: i suoi di Federico c’avevano addirittura il campo in terra rossa alla Villa, che sovente v’ero invitato a giocare,
a fargli la versione di greco che lui era zuccone e bere gli scelti
Châteauneufs del Ferdy, suo padre. Quando era lui a fermarsi
da me, che incombeva la prova di matematica e lui lì andava
come un treno, cucinava mia nonna buon’anima: timballi di riso
allo zafferano, gnocchi caserecci “alla bava”, scaloppe con porri e
freisa. E la barbera della nostra vigna che pure alla boccuccia del
Ferdy gli andava a genio.
Far tardi la sera nella Torino degli anni Settanta, coi casini dei sequestri e le Brigate Rosse, non se ne parlava. Era sempre il Ferdy a
trovar la quadra: lui aveva i suoi traffici in città e ci mollava in un
ristorante del centro, per recuperarci due ore più tardi e tornare
a casa. Così avevamo incominciato a sfogliarci la Guida Rossa,
perché mangiar bene ci piaceva e soldi ce ne davano. Ricordo
Gianfaldoni, La Cloche, ma soprattutto il Tastevin, quello che
già 30 anni fa ti dava il bicchiere del vino giusto su ogni piatto. E
va così che, quando si mette ai voti se andiamo in gita scolastica
a Venezia o Firenze, sfrutto tutta la mia autorità di capitano della
squadra di calcio perché si scenda in Toscana: a Venezia ci sarà
pure stato l’Harry’s Bar, ma in tutta Italia la stella – la Stella Michelin, dico – solo Pinchiorri ce l’aveva, nel lontano 1981…
Gita scolastica
Fosse stato Adalberto, il professore di greco, gliel’avrei fino detto,
che lui i cavoli che abbiam noi giovani per la zucca li ha sempre capiti, ma quello di latino no: già ce l’aveva fatto a fette con quella mensa studentesca dietro il cenacolo di Sant’Apollonia, che
mangiassimo poco e fossimo puntuali un’ora e mezzo più tardi
davanti al “Biancone”, che da lì – buttato l’occhio all’Orsanmichele – si andava oltr’Arno a visionare gli affreschi del Carmine.
Col cavolo! Da Pinchiorri c’abbiamo pure la prenotazione – alle
13, Ferrero Paolo da Torino – e abbiam solo voglia di passarcela
bene e che nessuno ce la guasti la festa.
A dir la verità, io però di ricordi là dentro mica ne ho poi così
tanti: non fosse il menù che ci ha regalato il maître, a momenti
ricordo manco quel che ho mangiato, tolto il ventaglio di petto
d’anatra, che ce l’han servito mica con la solita solfa di patate e
spinaci, ma con le mele renette, che la signora Annie il tocco alla
francese lo metteva un po’ dappertutto, ma bene che ci stava! Sarà
poi che di bottiglie ne abbiam bevute due: un po’ perché il primo
cameriere ci aveva un po’ snobbato, noi sfigatelli 15-16enni con
tutte le nostre pustoline e manco pensare di portarcela la carta dei
vini. E allora ne chiamiamo un secondo, che ci piglia più sul serio quando vede che la lista ce la studiamo pure («C’è scritto che
è la cantina più ricca d’Italia: è il signor Giorgio che l’ha messa
su…» spiego io colmo del mio ésprit de finesse al più cartesiano
Federico…), e la sua curiosità diventa simpatia quando recito che
vorremmo «una Vernaccia su gamberi, sogliola e gnocchetti», per
passare a un Rosso di Montalcino («No, il Brunello a pranzo non
lo bevo mai…»), ma «dalla vitella in poi».
Cred’io che un minimo di timore quel pinguino l’avesse mantenuto durante tutto il nostro pranzo, per tema che ce la svignassimo prima di pagare il conto. Tirati fuori 150 sacchi impassibili
come due banchieri, ci offrì pure il digestivo, considerato l’impegno, la determinazione, la pertinacia con cui avevamo affrontato
quel meraviglioso menù di otto portate senza deflettervi di un
sol boccone: diedemi l’Armagnac definitivamente in testa (ce ne
parlava sempre il professore di francese ch’era «fin meglio del
Rémy Martin!») e tutto, davvero tutto, e il mondo intero parvemi
per un attimo una roba celestiale e irripetibile, perfino quelle
due grassone di turiste americane sedute accanto a noi. Adesso che di anni ne ho il triplo, penserei alla loro storia con un filo
di malinconica fantasia, figurandomi quella coi capelli rossocinabro – che so? – una vecchia signora malata venuta finalmente a togliersela, quella sua antica nostalgia d’Italia; l’altra,
la biondo-platino, un’amica che Firenze ben se la ricorda, che
c’era venuta a 30 anni e nella fiaschetteria c’aveva conosciuto
l’Arrigo che come baciava lui le donne non avrebbe mai trovato
l’eguale, manco a Pigalle…
Ma allora c’era solo la voglia di ridercela tutta, beffardi e indifferenti coi nostri 16 anni, questo giorno d’aprile a Firenze che
bevi e mangi meglio dei re e ti prendi gioco di tutti: di quei
vecchi mascheroni, del primo cameriere che è antipatico e la
mancia la diamo solo all’altro e che fuori sembra agosto tanto si
sente il caldo ed è già un quarto alle tre e, se non pigliamo un
taxi, il pranzo ci va per storto, col mazzo che ci fa quell’altro…
Trofei
Però “Pinchiorri ’81” non è solo uno dei tanti, vanitosi trofei gastronomici (il più glorioso, certo!) che ho accumulato nella mia
larga carriera di piccolo epicureo: potrei buttarvi lì Guido e La
Contea, la Taverna Colleoni, l’Edgardo a Montalcino e perfino
il Trigàbolo d’Argenta. Però, quando poi sono stato io ad avercelo un ristorante che t’arrivava il fesso che «io-ho-mangiatodi-qui, io-ho-bevuto-di-là», era con Pinchiorri che lo mettevo a
cuccia: perché io da Pinchiorri il mio regal sederino ce l’avevo
appoggiato in tempi non sospetti, prima che ti spuntassero fuori
come i funghi tutti quei Fogar da trattoria, certi saputelli che
fino al giorno avanti il vino lo bevevano nel bicchiere della Nutella, quello con Titti e il gatto Silvestro stampigliati sopra.
E chi c’aveva mangiato la purea di tartufi coi bocconcini di
sogliola con 30 eroici anni d’anticipo ero stato io e l’altro che
mangiava assieme a me: il mio compagno di banco Giacomelli
Federico da Mathi Canavese, che quando s’era poi sposato con
la spagnola, il banchetto di nozze gliel’aveva fatto Adriá con tutti
i suoi sifoni schierati!
Quindi, se il tipo crede d’impressionarmi se ordina Gaja su
manz’affumicato&rucola, è roba che il cameriere snob dell’Enoteca Pinchiorri lo prenderebbe subito a calci in culo.
E io con lui..
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