«Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese. […] Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: – beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica».
In casa Cervi il 25 luglio del 1943 esplode la contentezza quando si viene a sapere che Benito Mussolini era stato arrestato: Alcide Cervi racconta così quella giornata nella sua opera I miei sette figli.
Quel giorno la famiglia porta la pastasciutta nei bidoni del latte in piazza per festeggiare: la notizia si sparge in breve tempo e tutta la cittadinanza di Campegine accorre per mangiare un piatto di maccheroni con burro e formaggio (un lusso, in tempo di guerra). Niente ragù – che non c’era né nei giorni normali né nei giorni di festa, ormai -, la pasta e basta, con burro e parmigiano:«Ma pasta per tutti, nessuno escluso, nemmeno il maresciallo che immediatamente arrivò a controllare quella insolita e improbabile “tavolata”».
Un evento spontaneo, la “Pastasciutta antifascista”, sorto per festeggiare tra le vie del paese quella che si considerava la fine del fascismo (Alcide Cervi lo chiama «funerale del fascismo»), anche se dovettero passare circa altri venti mesi per il crollo vero e proprio della dittatura. E la offrono a tutti, ma proprio a tutti.
«La pasta divenne la dichiarazione aperta e senza mezzi termini dell’antifascismo dei Cervi. Era un urlare a tutti che i Cervi erano di parte, erano già partigiani», si racconta in Partigiani a tavola- storie di cibo resistente e ricette di libertà. Poi lo divennero veramente, partigiani: ascoltavano Radio Mosca ed organizzarono le prime lotte di Resistenza prima della nascita del Comitato di liberazione nazionale. Distribuirono la stampa clandestina e in clima di clandestinità, la sera, parlavano con le famiglie del paese di politica e «speranze per un futuro migliore».
Infatti, la famiglia Cervi, di origine contadina e stanziata a Campegine (provincia di Reggio Emilia), animata da forti ideali democratici e cattolici, nel corso della Seconda Guerra Mondiale ha preso parte alla Resistenza partigiana. Alcide Cerri aveva sette figli, tutti combattenti partigiani che avevano dai quaranta ai vent’anni: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.
Una famiglia di contadini “anomali”, che da mezzadri hanno acquistato una terra per lavorarla in autonomia. I figli di Alcide, autodidatti e assetati di conoscenza, si sono impegnati molto per raggiungere l’avanguardia nel campo agricolo, adottando e sperimentando nuove tecniche nel loro podere “Campirossi”, come il trattore.
Il loro attivismo politico marcatamente antifascista, però, li espone troppo, tanto che la famiglia viene isolata. Dal momento in cui iniziò l’occupazione nazista dell’Italia, e quindi anche la Resistenza, il governo tedesco prese in mano la gestione del settore alimentare italiano. Sottrarre al Terzo Reich del grano o del latte era Resistenza: i prodotti “salvati” dall’ammasso potevano essere donati ai partigiani, che sui monti soffrivano la fame. Dunque, i Cervi, dal settembre del ’43 trasformarono la loro casa in una fabbrica alimentare, producendo più pane e attuando stratagemmi per tenere in casa il latte e trasformarlo in burro:«Il burro bisognava mandarlo in montagna, ai partigiani, perché ai partigiani gli manca sempre il burro», racconta Cervi nel suo libro. Poi boicottarono, insieme ad altre famiglie, l’approvvigionamento del cibo imposto dal regime. Tutta la famiglia prese parte attivamente alla Resistenza partigiana: i sette fratelli formavano la Banda Cervi, mentre le donne preparavano il pane per i partigiani e lo mandavano in montagna, ospitando poi chiunque, tra i prigionieri latitanti russi ed inglesi, avessero bisogno di accoglienza e cure. Tutto questo fino alla cattura di tutti i fratelli Cervi, insieme al padre, il 25 novembre 1943.
La tradizionale Pastasciutta Antifascista è nata così, una sera di luglio del ’43: un po’ improvvisata, un po’ smaniosa di festeggiare una guerra che si pensava arrivata al suo termine, un po’ affamata di vita. E si continua a festeggiare così, in molte città italiane, grazie all’Istituto Cervi e alla Rete associativa attiva in tutta Italia e vicina alla fondazione dei sette fratelli. Nel 2018 si è arrivati ad avere ben 130mila manifestazioni di Pastasciutte Antifasciste in tutta Italia.
«Quei maccheroni che uscivano dai bigonci del latte erano Campegine, la Bassa, l’Emilia, l’Italia che ritornava a sorridere. Che sperava fosse tutto finito. Mentre la lotta di Resistenza era appena cominciata».
(Fonte: Partigiani a Tavola. 'Storie di cibo resistente ricette di libertà' Di Lorena Carrara e Elisabetta Salvini )
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